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Il coronavirus non va in vacanza

L’Italia in primis, ma soprattutto la Calabria non si possono permettere una seconda ondata di coronavirus, né hanno la forza economica per gestire una nuova chiusura

 Il coronavirus non va in vacanza

Il diciassettenne di Girifalco che va a ballare in due discoteche diverse, forse senza aspettare l’esito del tampone. La ragazza di Reggio Calabria che, rientrata dalla Lombardia, organizza un affollato aperitivo con gli amici che si trasforma in un mini-focolaio di Covid-19. I due liceali cosentini che si contagiano a Corfù, trasmettendo il virus anche in famiglia. Tre storie, tutte calabresi, che ci mettono di fronte a una scomoda verità: al coronavirus non importa che sia agosto, perché il coronavirus non va in vacanza. Anche nella nostra Regione, capace di arginare – più o meno – l’emergenza sanitaria. Anzi, non deve stupire che proprio in questi giorni (e queste notti) di mezza estate, in Italia la curva dell’epidemia sia tornata a crescere, seppur più lievemente rispetto ad altre nazioni d’Europa. Tanto che, con apprezzabile prudenza, il governatore Santelli prima e il governo poi hanno deciso di optare per la chiusura di tutti i luoghi di movida da spiaggia.

Demonizzare la meglio gioventù del nostro Paese non è la giusta strategia per convincere gli amanti dei bagordi a contenersi ancora per un po’: ovviamente c’è chi, pur non rinunciando giustamente a uscire con gli amici, sa divertirsi dimostrando buonsenso. Eppure, non bisogna giustificare quei ragazzi – e purtroppo sono tanti – che, irresponsabilmente, sono andati in vacanza all’estero senza indossare la mascherina o si sono autoconvinti – senza successo – che il pericolo Covid-19 non sussiste assembrandosi in discoteca. Arroganza? Onnipotenza? Menefreghismo? Non importa cosa abbiano pensato: l’Italia in primis, ma soprattutto la Calabria non si possono permettere una seconda ondata di coronavirus, né hanno la forza economica per gestire una nuova chiusura. Dispiace constatare che è stato inefficace l’appello a ricordare i 35.000 morti, i 35.000 padri, madri, nonni, nonne, zii e zie che non sono sopravvissuti a quella che è una vera e propria guerra batteriologica, guerra che, al contrario di quelle che si combattono con kalashnikov e carri armati, non finisce quando lo vogliamo noi. Allora, ai teenager che tanto sono stati pazienti durante il lockdown e ai ventenni e trentenni che, restituendo alla storia una versione dei fatti forse fin troppo apocalittica, si sono sentiti privati dei loro anni migliori, adesso si deve imporre – non più chiedere – di pensare quantomeno ai loro cari. Non ai padri, alle madri, ai nonni e alle nonne di Italia, ma ai propri, quelli che soffrono di ipertensione o di diabete, quelli fiaccati fisicamente e psicologicamente da mesi di disoccupazione e di ansia per il futuro, quelli il cui sistema immunitario scricchiola a causa della vecchiaia. 

Un attimo – o meglio – una serata di “distrazione” e di straniamento dalla realtà può avere conseguenze sulla salute di intere comunità e su un sistema produttivo che può ritrovarsi improvvisamente nell’incubo di essere nuovamente ghettizzato a zona rossa. Ma, soprattutto, può impattare in modo devastante su un mondo del lavoro che, nella nefasta eventualità di un lockdown-bis, chissà quando ripartirà soprattutto per quegli under 30 che fino a ieri si sono dimenati senza pensieri in discoteca. Altrimenti, poi, sarà decisamente difficile resistere alla tentazione di non pensare che gli sfoghi dei giovani che hanno sottovalutato il Covid-19 siano un pianto del coccodrillo.

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