Cultura
Global Visual Poetry: una mostra su parole, immagini e messaggi di pace

L’esposizione rientra tra le iniziative culturali previste nell’ambito del Giubileo della Speranza
Si chiama Global Visual Poetry 1950-1980 la nuova mostra allestita dentro i locali del Dicastero per la Cultura e l’Educazione, visitabile fino al 20 giugno. È una delle tante esperienze culturali che i pellegrini possono vivere, recandosi a Roma per prendere parte al Giubileo della Speranza. L’esposizione, curata da Raffaella Perna, vuole porre l’attenzione sul rapporto importantissimo tra parole e immagini, nell’ambito di quella grande rivoluzione letteraria e artistica chiamata “Poesia Visiva”, andando contro quel logorio e quell’impoverimento del linguaggio verbale a cui spesso assistiamo. La poesia visiva nasce tra la fine degli anni ’50 e gli inizi degli anni ’60, raccogliendo l’eredità del futurismo e del dadaismo. Si presenta sotto forma di contestazione o dissacrazione di un certo sistema massmediale, intrappolato in forme di automazione e di ripetitività linguistica. Prende anche le distanze dalle correnti letterarie novecentesche (ermetismo, memorialismo, avanguardie) che tendono a richiudere la parola in spazi ristretti, dandole un significato ben preciso. Gli intellettuali e gli artisti di questo nuovo movimento comprendono il senso profondo della comunicazione, e intendono usare la parola a scopi sperimentali travalicando i confini degli stati, creando ponti tra culture e conferendo alla loro arte un carattere universale e transnazionale. Il filone della poesia visiva punta ad integrare immagini e parole, muovendosi nel solco della tradizione tracciato dalle antiche tavole di scrittura greca e latina, dalle decorazioni azteche e islamiche, dai Calligrammes di Apollinaire, dal Coup de dés di Mallarmé e dalla tradizione futurista. I poeti sono convinti che un termine possa assumere diverse accezioni e sia in grado di trasmettere messaggi, anche a partire dai suoi elementi iconici. Il nuovo scrittore riformula il già noto spazio bidimensionale della pagina e genera nuove possibilità di lettura in più direzioni, usando pochi vocaboli accuratamente scelti. Gli artisti di quest’arte inclusiva e socialmente impegnata sperimentano diverse soluzione verbo-visive, per trattare temi attuali come l’ecologia, la condizione della donna, il colonialismo, la supremazia occidentale, le disparità sociali e il boom economico, ma anche per prendersi gioco delle disuguaglianze, della mercificazione del corpo femminile e degli stereotipi del tempo, sempre mossi da un sentimento di speranza. Un primo tentativo per uscire dalla rigidità della parola viene compiuto dal Gruppo ’70, fondato in Toscana nel 1963 da Lamberto Pignotti e da Eugenio Miccini, denominato così perché costantemente proiettato verso il futuro. Il suo obiettivo è quello di uscire dalla “galassia gutenberg” della prigionia della parola e dalla mimesi del ritratto più o meno astratto della realtà, rifiutando i vecchi linguaggi, riprendendo vari elementi dei new media e creando un neo volgare, sulla falsariga di quanto fecero i poeti stilnovisti che, nel Medioevo, si rifiutarono di scrivere in latino e crearono il volgare a partire dagli idiomi comuni. A ciò si aggiunge il pastiche di immagini e slogan della cultura popolare, per realizzare la “poesia tecnologica” caratterizzata dal collage di vocaboli non più puri, non più liricheggianti ma contaminati con gli elementi dei mass media. Pignotti accosta segni e codici di diversa provenienza (linguistici, visivi, uditivi, mediali), creando le sue poesie visive con foto di cronaca, di moda o di pubblicità messe insieme sotto forma di collage, inserendo effetti parodici e ironici. L’idea che sta dietro al lavoro di questi maestri è far vedere che letteratura e arti visive non sono cose a sé stanti e possono coinvolgere il fruitore, in un rapporto di continuo interscambio di messaggi. Tra i fondatori della Visual Poetry vi è il monaco benedettino Dom Sylvester Houédard Osb (1924-1992), editor letterario per un certo periodo della traduzione della Bibbia di Gerusalemme, formatosi presso il Pontificio Ateneo di Sant’Anselmo a Roma. Egli sposta l’attenzione dal contenuto del testo ai suoi elementi costitutivi (parole, sillabe, fonemi), dislocati variamente su fogli o su materiali non sempre cartacei, esaltandone la dimensione tipografica. Houédard produce quelli che definisce “poemi visivi” o “typestracts” (poesie visuali composte con la macchina da scrivere). Una sua massima recita così: “Ogni cosa materiale è una rivelazione dell’invisibile”. I visitatori della mostra possono ammirare oltre duecento opere realizzate tra il 1950 e il 1980. Tra i capolavori esposti abbiamo “Le ragioni dell’astrattismo” (1965) di Pignotti, “Senza titolo” (1977) di Tomaso Binga, “La collezione” (1964) di Luciano Ori, “Rosa rossa” (1974) di Eugenio Miccini e “Art is easy” di Giuseppe Chiari. L’immagine scelta come guida di tutta la retrospettiva è il dipinto “Pax” di Lucia Marcucci, pioniera della poesia visiva, attraverso il quale si vuole lanciare un messaggio di pace, di cura dell’ambiente, di custodia del territorio e di rispetto per le culture e le diversità. Marcucci è conosciuta per l’ironia vitale e provocatoria delle sue composizioni verbo-visive, con cui denuncia la strumentalizzazione del corpo femminile e rivela le ambiguità dei mezzi comunicativi. Perché Pax? “Pax e poesia, perché in quell’opera si parla della pace che la lingua può portare, le parole sono importantissime per esprimerla” osserva Perna. Il concetto di pace era importante per Bergoglio così come lo è per Leone XIV, che non perde occasione per fare continui appelli alla riconciliazione tra i popoli in guerra. In occasione dell’allestimento della retrospettiva il cardinale José Tolentino de Mendonça, prefetto del Dicastero della Cultura e l’Educazione, ha ricordato che “i creatori della Visual Poetry ci ricordano che nella scrittura umana più funzionale, nella nostra scrittura misurata, minuscola o amministrativa, pulsa la possibilità poetica che da un istante all’altro rende qualsiasi lettera ‘illegibile come la tigre’, e cioè documento non della risposta ma della domanda; non dell’evidenza, ma dell’enigma; non solo prevedibile morfema del visibile, ma dirompente sintassi di ciò che non si vede“.