Cultura
Il giornalismo, un’esperienza confortante durante la Grande guerra

Tra le testate del periodo bellico vi era il “Gazzettino di Wonbaraccopoli” diretto da Bernardo Barberio, originario di San Giovanni in Fiore
Lo scenario della Grande guerra fa da cornice al racconto storiografico sulla condizione dei combattenti italiani, magistralmente ricostruito nelle pagine del libro Giornali prigionieri. La stampa di prigionia durante la Grande guerra (Donzelli editore 2024), a cura del docente cosentino Giuseppe Ferraro, presidente dell’Istituto per la storia del Risorgimento italiano – Comitato provinciale di Cosenza. L’idea di questo volume è nata in occasione del centenario dalla fine della prima guerra mondiale e, in particolare, dalla rievocazione dell’esperienza bellica della Brigata Catanzaro del Regio Esercito. Fulcro della narrazione è la descrizione della poco nota condizione socio-psicologica dei soldati italiani. Circa 8 milioni e 500 mila militari subirono l’internamento nelle prigioni austriache e tedesche, di cui 600 mila solo di nazionalità italiana (di questi 100 mila persero la vita). Quasi la metà cadde nelle mani del nemico, all’indomani della disfatta di Caporetto. Nel loro status di isolamento e di monotonia, i soldati cercarono di costruirsi una certa normalità dedicandosi a varie mansioni: artigianato, musica, studio delle lingue e teatro. Si fece avanti ben presto l’esperienza del giornalismo, per l’interesse che gli stessi detenuti mostrarono verso l’attività di stesura di articoli, resoconti e racconti di guerra. Affidarono alla penna i loro ricordi, le loro esperienze e le loro emozioni, nel tentativo di lenire le sofferenze provocate dal conflitto e di contenere la tristezza di quei duri momenti, aggrappandosi alla speranza di riottenere la libertà. Ferraro è riuscito a mettere mano a carte comprovanti il lavoro giornalistico dei soldati, che elaboravano i pezzi e si occupavano della stampa e della distribuzione dei fogli. Lo sguardo dell’autore del libro abbraccia una prospettiva globale, senza però mancare un riferimento preciso e puntuale alla storia locale calabrese. Spulciando e analizzando con zelo vari documenti d’archivio, il ricercatore ha ricostruito il caso del “Gazzettino di Wonbaraccopoli”, un giornale di prigionia diretto dal capitano Bernardo Barberio, originario di San Giovanni in Fiore, notaio, intellettuale impegnato e proveniente da una famiglia della borghesia agraria meridionale. Fu capitano di complemento del 142° Regimento fanteria, mobilitato sul fronte di guerra tra il 1915 e il 1916 quando, durante la battaglia sul Monte Cengio, fu fatto prigioniero dagli Austriaci, quindi rinchiuso nel campo di Sigmundsherberg in Austria e, in seguito, in quello ungherese di Dunaszerdahely dove rimase fino all’armistizio. Il ricordo della sua esperienza bellica è impresso nelle pagine di due diari, uno redatto tra il 1915-16, l’altro nel 1918, conservati nell’archivio familiare che Ferraro ha avuto modo di analizzare. Nel libro si parla anche dello stemma del “Municipio” di Wombaraccopoli, che includeva tre ratti e ragnatele, ma anche catene e un grosso lucchetto. Oggetto di studio è stato anche l’ “Attesa” che, insieme al “Gazzettino di Wonbaraccopoli”, ha rappresentato una vera e propria forma di resistenza e di lotta alle barbarie della Grande guerra, mediante gli strumenti della carta e della parola. Queste due testate facevano riferimento all’esistenza trascorsa nel campo di prigionia di Dunaszerdahely in Ungheria, ma non furono le due sole realtà giornalistiche esistenti. Nacquero, tra gli altri, “L’Eco del prigioniero”, “L’Eco umoristico”, “L’Eco caricaturista” e “La Scintilla”, che potevano essere compilati a mano, disegnati, poligrafati, ciclostilati o stampati. Constavano di un numero di fogli variabile e uscivano settimanalmente o mensilmente. L’alta richiesta nei campi comportò l’opzione della stampa meccanica e la scelta di inchiostri e acidi di qualità, pur essendo presente dietro l’angolo il rischio della censura ad opera delle autorità costituite. Fu concessa questa valvola di sfogo con la creazione di queste testate, per cercare di tenere a bada le masse da possibili rivolte. Sulle pagine figuravano immagini di donne, riferimenti patriottici, vignette caricaturali dirette ai sorveglianti dei campi e, spesso, non mancavano richieste di pace. I giornali di prigionia furono una palestra importante per i detenuti, in particolare per coloro i quali riebbero la libertà e proseguirono con l’attività giornalistica a partire dagli anni Venti. È una pagina di storia importante, da cui si evince l’ingegno e la bravura di chi ha cercato di costruirsi una normalità in mezzo a tanto dolore.
