József Mindszenty, martire della fede

Cinquant’anni fa moriva il cardinale ungherese, simbolo di una Chiesa vicina ai perseguitati e ai dissidenti

Sono trascorsi cinquant’anni dalla morte del cardinale ungherese József Mindszenty, uomo di Dio, martire della fede e simbolo delle persecuzioni subite dai cattolici magiari, negli anni in cui infuriava il nazismo in Europa. Nacque a Csehimindszent nel 1892, al confine con l’Austria e la Slovenia, nei territori dell’ex impero austro-ungarico. I suoi genitori János Pehm e Borbála Kovács, viticultori, gli insegnarono a recitare il Rosario, gli fecero scoprire la bellezza di servire la messa e l’importanza di dedicare la propria vita a Dio, annunciando il Vangelo. Entrato in seminario a Szombathely, venne ordinato presbitero il 12 giugno 1915, solennità del Sacro Cuore di Gesù, mentre era già in corso la grande guerra. La sua consacrazione religiosa fu l’inizio di un lungo calvario, segnato dall’amore per i propri connazionali ma anche da momenti di dolore e di pianto. In seguito alla caduta dell’impero asburgico nel 1918, alla fine del primo conflitto mondiale, don József venne arrestato dal governo rivoluzionario del “conte rosso” Károlyi, che era salito al potere dopo la “protesta dei crisantemi” del 30 ottobre 1918 e la nascita della Repubblica Democratica di Ungheria. Il sacerdote aveva urlato a gran voce la sua posizione a favore del cristianesimo e contro il partito comunista, dalle colonne di un giornale cattolico dell’epoca. Venne espulso dal paese sotto il governo comunista di Béla Kun, facendovi ritorno solo dopo la caduta della dittatura dei “rossi”. Nominato parroco di Zalaegerszeg, capì che uno dei problemi principali era l’istruzione delle anime che gli erano state affidate. Si dedicò all’insegnamento della religione, promuovendo l’apertura di scuola, costruendo case parrocchiali e rilanciando la catechesi. L’opera evangelizzatrice era la sua priorità, insieme alla preghiera, all’adorazione di Gesù eucarestia e alla devozione mariana. Il dilagare del nazismo in Europa e la tendenza dell’Ungheria alla germanizzazione portarono don József ad abbandonare il suo vero cognome, Pehm, legato alla tradizione tedesca, e ad adottare quello di Mindszenty, dal suo paese natale. Venne nominato vescovo di Veszprém nel 1944 impegnandosi, in primo luogo, a combattere l’odio nazista offrendo il suo soccorso a tanti ebrei e dissidenti, destinati alla reclusione nei campi di concentramento. Durante la seconda guerra mondiale stette vicino ai poveri, organizzò momenti di preghiera con gli altri sacerdoti, appoggiò l’apostolato dei laici, sostenne le famiglie, assistette gli infermi e creò nuove parrocchie e scuole. “Voglio essere un buon pastore, pronto a dare la vita per il suo gregge” ebbe modo di dichiarare. Nel 1945 Pio XII lo nominò Arcivescovo di Esztergom e Primate di Ungheria, mentre dall’oriente avanzava la pericolosa armata rossa di Stalin verso il suo paese. “Sarò la coscienza del mio popolo – affermò nel discorso di insediamento – busserò come sentinella vigile alla porta delle vostre anime e predicherò le antiche verità eterne richiamando a nuova vita le sue sante tradizioni, senza le quali potrà forse vivere il singolo ma mai la nazione nel suo complesso”. Nel 1946 papa Pacelli lo elevò alla dignità cardinalizia e gli conferì anche il titolo di Santo Stefano al Monte Celio. Vestire la porpora di colore rosso, un chiaro riferimento al sangue versato da Cristo, era un anticipo del sangue che l’alto prelato avrebbe versato di lì a poco. Nel frattempo la Chiesa d’Ungheria iniziò ad essere perseguita dall’Unione Sovietica, che aveva reso il paese un suo stato satellite. Il cardinale continuò la sua azione pastorale organizzando, tra le altre cose, dei pellegrinaggi come quello al santuario di Máriaremete, a cui presero parte circa centomila fedeli, e indicendo, nel 1947, un Anno Mariano. I sovietici non gradirono queste iniziative religiose e iniziarono a sabotare le sue celebrazioni. In più il suo essere Primate d’Ungheria rappresentava un pericolo per i nemici della fede cattolica, essendo un titolo che gli conferiva sia poteri ecclesiastici che civili, per mezzo dei quali poteva incoronare il re e prenderne perfino il posto in caso di impedimento. Mindszenty protestò contro gli invasori che si resero colpevoli di assassini e stupri, finendo agli arresti e venendo incarcerato e sottoposto a torture e umiliazioni. I comunisti lo rinchiusero nel palazzo che un tempo ospitava la Gestapo, lo malmenarono e cercarono di estorcergli delle confessioni. In quelle ore di estrema sofferenza continuò a pregare la Madonna, perché proteggesse il suo popolo e gli desse la forza per essere sempre fedele a Cristo, fino alla morte. Condannato all’ergastolo con un processo-farsa nel 1949, sottoscrisse l’accusa di cospirazione finalizzata a rovesciare il regime ma vi appose la sigla C.F. (coactus feci, “firmai perché costretto”). La notizia del suo arresto per mano dei comunisti violenti e anticattolici si diffuse subito. Pio XII sostenne da Roma il suo amato cardinale con la lettera apostolica Acerrimo Moerore del 12 febbraio 1949, disapprovando la politica marxista. Negli otto anni di prigionia, al porporato furono negati i testi sacri e quindi la possibilità di pregare. “Anche se avevo sperimentato l’orrore dell’odio, anche se avevo imparato a conoscere la faccia del diavolo, proprio il carcere mi insegnò a fare dell’amore il principio direttivo della vita” disse il religioso. Nel 1956 un’insurrezione popolare, guidata dal militare ungherese Antal Pallavicini, garantì la liberazione di Mindszenty. Questi raggiunse Budapest dove tenne un discorso a favore del politico Imre Nagy, che mirava all’apertura dell’Ungheria all’Occidente e a far trionfare i principi liberaldemocratici. I russi di Krusciov riuscirono a sedare la rivolta di Pallavicini, costringendo il cardinale a rifugiarsi nell’ambasciata americana di Budapest, grazie all’intervento del presidente Eisenhower, dalla quale non poté uscire prima del 1971, onde evitare di finire in mano alla polizia segreta. La sua fu un’esistenza condotta nel silenzio, nella preghiera e nella continua offerta di se stesso a Dio per il bene dell’Ungheria e della Chiesa, segno di un martirio vissuto in rapporto alle pene di Cristo. Mindszenty fu nettamente contrario a qualsiasi forma di collaborazione e di compromesso tra la Chiesa cattolica e i comunisti, sottolineando l’alta posizione morale della Santa Sede, pronta a denunciare qualsiasi abuso e violazione dei diritti umani. Il porporato ungherese inviò addirittura una lettera alla Segreteria dello Stato Vaticano, presieduta dall’allora cardinale Jean Villot, criticando le procedure scelte per la nomina di determinati vescovi che spalleggiavano la politica sovietica. Mindszenty non sostenne, negli anni sessanta, il progetto di riconciliazione che il Vaticano voleva portare avanti con i paesi comunisti. Il cardinale Agostino Casaroli, responsabile di questa politica di compromesso per la normalizzazione dei rapporti (Ostpolitik), non gradiva la posizione del religioso ungherese, del quale apprezzò comunque l’alta levatura morale e la grandezza spirituale. Per anni Mindszenty rifiutò la protezione vaticana, ma quando, verso la fine del 1971, iniziò ad essere una presenza scomoda presso l’ambasciata statunitense, dovette recarsi presso la Santa Sede. Paolo VI, volendo risolvere il caso della prigionia del porporato, dichiarò che era “vittima della storia” e non del comunismo, ritirando la scomunica contro i suoi persecutori. Deluso dalla politica vaticana, Mindszenty lasciò Roma e si trasferì a Vienna. Da qui compì diversi viaggi facendo visita alle comunità ungheresi sparse nel mondo, alle quali mostrò il suo affetto e parlò di verità, libertà e amore per il trascendente. Paolo VI lo sollevò dall’incarico di Arcivescovo di Esztergom e di Primate d’Ungheria nel 1973, una richiesta a cui József, nel suo stato di isolamento voluto da Budapest, si oppose strenuamente fino alla sua definitiva capitolazione dopo tre anni. Il cardinale si spense a Vienna il 6 maggio 1975 per un arresto cardiaco, e fu sepolto nel santuario austriaco di Mariazell, la cui icona è anche patrona dell’Ungheria. Le sue spoglie tornarono in patria nel 1991. Il 22 ottobre 1996 fu avviata la causa di canonizzazione, mentre nel 2012 Mindszenty riottenne ufficialmente la riabilitazione legale e morale da parte della Curia romana con la chiusura del processo-farsa. Il 12 febbraio 2019 papa Francesco ne ha riconosciuto le virtù eroiche dichiarandolo venerabile.