Cultura
Uomo-macchina? Lo spirito come antidoto contro una cultura tecnocratica
Nel libro “Macchine celibi. Meccanicizzare l’umano o umanizzare il mondo?” Giaccardi e Magatta descrivono una società contemporanea in cui c’è il rischio che la persona perda la sua coscienza
È plausibile parlare oggi di “macchine che pensano” dotate di qualche forma di intelligenza, creata da noi umani e ora sfuggita al nostro controllo? Si interrogano su questo e su tanto altro Chiara Giaccardi e Mauro Magatti, docenti all’Università Cattolica, autori del libro Macchine celibi. Meccanicizzare l’umano o umanizzare il mondo? (Il Mulino 2025), da poco in libreria. Il presupposto di base da cui i due studiosi partono è che alla macchina non spetta l’ultima parola e che l’essere umano continua a mantenere un suo spazio insostituibile, che nessun dispositivo mai gli sottrarrà. C’è il rischio però che gli uomini si trasformino in “macchine celibi”, simili a device “intelligenti” al servizio dei potenti che gestiscono le tecnologie, senza autonomia né rapporti reciproci. L’IA e gli altri dispositivi digitali hanno il vantaggio di svolgere in maniera automatica e veloce tanti compiti, ma possono creare dipendenza tecnologica, violare il diritto alla privacy, ridurre lo spazio di libertà personale, generare problematiche etiche e produrre disuguaglianze e solitudini. Le tecnologie, allora, umanizzeranno il mondo o l’uomo sarà meccanicizzato?. È difficile dare una risposta ma è bene fare scelte ponderate, che contribuiscano alla salvaguardia della morale e tutelino l’intelligenza come facoltà cognitiva donata da Dio. Una buona dose di pessimismo, tuttavia, è d’obbligo a fronte di buoni propositi e di tentativi di miglioramento nell’uso dei mezzi tecnici. Giaccardi e Magatti parlano di “tecnopessimismo oggettivo” che porta l’uomo ad essere risucchiato nei modelli computazionali. “Oggi l’uomo sempre più si fa macchina, mentre la macchina si fa sapiens: il piano umano e quello meccanico diventano sempre meno distinguibili. Nasce così il regno delle macchine celibi, dove l’essere umano viene modellato da ciò che lui stesso ha costruito, dentro un orizzonte chiuso e autoreferenziale, che non ammette esteriorità alcuna” si legge nel libro. Queste trasformazioni sono specchio di quella “post-modernità” definita “modernità liquida” da Bauman, vale a dire la convinzione che l’unica costante sia il cambiamento e che l’unica certezza sia l’incertezza, che porta con sé il crollo delle cose durevoli (solide) e l’avvento delle cose effimere (liquide) che scorrono lungo l’asse della transitorietà. Ciò provoca insoddisfazione e disperazione continue verso un futuro che non è prevedibile. In questa nuova modernità ipertecnologica i legami interpersonali, da sempre alla base della risoluzione dei conflitti e dei fallimenti e, quindi, necessari alla vita individuale e collettiva, vengono sacrificati in nome di un benessere narcisistico e di un progresso illimitato, che torna utile solo al singolo uomo. Si va incontro ad un linguaggio povero, all’uniformità culturale e alla mancanza di significati profondi e duraturi. Si fanno spazio i populisti e i leader carismatici, che sfruttano il digitale per manipolare la mente e la vita della gente, parlando di progresso illimitato e facendo promesse caricate di un presunto significato cristiano. In questo modo restringono la cerchia di persone a cui sono concessi pieni diritti, annullando il senso di democrazia generalizzata. La crisi inevitabile che tutto ciò innesca richiede un tempestivo intervento, volto a preservare la dimensione umana. Nel loro libro Giaccardi e Magatti propongono di recuperare lo “spirito” dell’uomo inteso come libertà creativa, come possibilità di produrre significati e come spinta verso il trascendente. Lo spirito serve per combattere questa cultura tecnocratica, ripristinando la convivenza civile. Non si tratta di annullare il digitale ma di ripensare il concetto di “complessità”, ridando linfa alla pluralità, al dialogo interpersonale e al pensiero critico. In questo modo potrà essere rinvigorita una società democratica, nella quale prevale il pensiero oltre alle funzioni tecniche. Gli scrittori dicono che bisogna diventare “poeti sociali” – per usare un’espressione lanciata da Bergoglio nel 2021 – che non rifiutano la tecnologia ma la reintegrano nella visione umanizzata e umanizzante del mondo, mettendo in moto la loro intelligenza, presentandosi come esseri pensanti e creando rapporti. Essi, come disse papa Francesco in occasione del IV incontro mondiale dei movimenti popolari nel 2021, hanno la “capacità e il coraggio di creare speranza laddove appaiono solo scarto ed esclusione”. Questo eviterà il rischio di diventare macchine celibi, efficienti, efficaci, avanzate ma isolate e sterili, senza rapporti e incapaci di riconoscere l’altro. Democrazia e convivenza potranno emergere e rappresenteranno una valida soluzione all’uomo-macchina, grazie ad una relazione proficua tra creatività, pensiero, responsabilità collettiva a tecnica. In questo modo si riaffermerà la centralità della persona con la sua intelligenza e la sua vocazione sociale e spirituale, necessari per guidare qualsiasi scelta tecnologica. È importante – come ha detto Leone XIV – che non venga violata l’antropologia cristiana.

