L’Ultima Cena di Rubens

Morire al peccato per risorgere a vita nuova, attingendo al pane e al vino che Gesù ci offre istituendo l’Eucarestia il Giovedì Santo

Il Triduo Pasquale ci impone una seria riflessione come cristiani, desiderosi di conoscere sempre più il mistero di Gesù Cristo e di convertire il nostro cuore, purificandolo dal peccato. Gli artisti, nel corso dei secoli, ci hanno comunicato il loro personale modo di intendere la perdizione, dipingendo quadri nei quali mettono a fuoco il contrasto tra il male da combattere e il bene, rappresentato da Dio che è fonte di luce.

Vogliamo offrire ai nostri lettori l’analisi di una delle tele che, al pari di tante altre, esprime efficacemente questa dualità tra ciò che è giusto e ciò che è sbagliato, tra la strada che porta alla Speranza di una vita vissuta contemplando Dio e la strada opposta che porta allo smarrimento di sé. Ci riferiamo all’Ultima Cena dipinta, nel 1632, da Pieter Paul Rubens, pittore fiammingo nato a Siegen nel 1577, morto ad Anversa nel 1640, e considerato l’archetipo della cultura barocca, che traduce visivamente l’allusione al potere politico e religioso, attraverso virtuosismi, forme sfarzose e dinamismi. Rubens è un artista a tutto campo, che indirizza le sue curiosità culturali e intellettuali verso ogni disciplina artistica. Le sue opere testimoniano uno spirito aperto alle nuove idee, e le sue collezioni denotano uno spiccato interesse per l’antichità. Oltre ad essere interessato ai problemi stilistici e strutturali architettonici, il genio getta le basi del linguaggio figurativo barocco: la sua capacità di scorciare le figure in modo alquanto ardito, proiettandole nello spazio con dinamico movimento, gli consente di realizzare capolavori di grande profondità e impatto emotivo. Il colore, invece, acquisisce per lui una valenza autonoma, perdendo la sua canonica funzione di chiarire e spiegare la forma oggettiva. Rubens giunge in Italia nel 1600 studiando le opere degli artisti veneti del cinquecento a Venezia. Diventa il pittore ufficiale della corte mantovana grazie a Vincenzo Gonzaga, arricchendo la sua formazione figurativa a contatto con la vita ducale. Compie brevi soggiorni a Parma, Milano e Genova, ma è a Roma che approfondisce i suoi saperi confrontandosi con l’arte antica, con Michelangelo, Raffaello e Caravaggio. Riceve varie committenze da parte degli ecclesiastici del tempo, dipingendo, tra le tante cose, la pala d’altare Madonna della Vallicella e l’Adorazione dei Pastori di Fermo. Le tematiche bibliche sono trattate con una certa complessità di impianti compositivi, con un attento uso della luce e con una descrizione adeguata degli effetti atmosferici. Rubens arricchisce molto il suo stile grazie ai viaggi compiuti in Italia e in Spagna. I veneziani, Tintoretto e Tiziano, per esempio, lo influenzano così tanto da plasmare le sue produzioni, nelle quali è presente un certo lirismo sensuale ed è preservato un senso profondo dell’umano e del quotidiano. Nei dipinti nei quali è presente la tematica religiosa, Rubens raffigura la divinità in stretta connessione alle sensazioni fisiche. Il dolore o la gioia dei personaggi sono specchio dei sentimenti di questo mondo. Il pittore fiammingo innesta nella materia sacra qualcosa di pagano e lo fa in maniera così decisiva, superando addirittura altri grandi come Caravaggio. Tornando ad Anversa nel 1609, riceve sostegno da parte di potenti protettori, tra cui il borgomastro Nicolas Rockox e l’arciduca Alberto, governatore dei Paesi Bassi meridionali. Il suo ritorno in questa città fu sollecitato, non solo dalla malattia della madre ma anche dalla volontà degli arciduchi del Belgio di avere a disposizione un artista, in grado di trasmettere con le sue pennellate lo spirito del loro regno, caratterizzato da un’antica virtù ma anche da una rinnovata flessibilità e da uno spiccato dinamismo. Rubens si circonda di validi collaboratori che frequentano il suo atelier, tra cui Jacob Jordaens, Anton Van Dyck e Jan Bruegel dei Velluti. Il maestro inaugura la consuetudine di dipingere in un’opera le parti figurate, lasciando ad altri il compito di completarla con paesaggi o nature morte.

Risale al periodo di Anversa l’elaborazione dell’Ultima Cena, il dipinto parte di un retablo (polittico monumentale) comprendente due predelle con Storie della Passione di Cristo, conservate presso il Musée des Beaux-Arts di Digione. L’Ultima cena, custodita nella Pinacoteca di Brera a Milano, viene commissionata a Rubens da Caterina Lescuyer come opera da collocare sul sepolcro del padre, Pawels Lescuyer. Il pittore traduce sulla tavola il soggetto principale, lasciando ai suoi allievi la stesura pittorica ad olio. Il maestro si riserva le pennellate finali con le parti che reputa più interessanti. Viene rappresentato Cristo seduto ad una tavola quadrata circondato dai suoi apostoli, mentre benedice il pane e il vino. A destra del Salvatore c’è Pietro, a sinistra Giovanni. Sul lato opposto del tavolo spicca Giuda, che ha una posa storta e uno sguardo accigliato indicanti il suo stato d’animo turbolento. Il traditore per eccellenza guarda in maniera penetrante lo spettatore calpestando, in modo sprezzante, un bellissimo cagnolino fedele e mansueto, forse simbolo di avidità o bramosia. È palese che Rubens abbia tenuto per sé la descrizione, in primo piano, della figura di Giuda. Attraverso gli occhi di questo apostolo dannato il pittore ci parla, esortandoci a non comportarci mai come ha fatto lui, che si è venduto per 30 denari allontanandosi dalla grazia divina che sta al centro del dipinto stesso, nelle forme del pane spezzato e del vino che donano la vita eterna.