I poveri, i sofferenti e gli ultimi nelle poesie e nei racconti sul Natale

Vaticano, 11 dicembre 2016. Angelus del Papa Francesco e tradizionale benedizione dei Bambinelli del Presepe ( Bambino Gesù )

“Suono di chiesa, suono di chiostro,/ suono di casa, suono di culla,/ suono di mamma, suono del nostro/ dolce e passato pianger di nulla”.

In “Le ciaramelle” Giovanni Pascoli rientra in uno spazio-tempo che gli permette di riassaporare la fascinazione antica dei canti e dei suoni di Natale, di ritornare solo per un attimo ad un mondo fatato, anche se già colpito dal dolore della perdita del padre. Nella poesia, compresa nei “Canti di Castelvecchio”, si affaccia il ricordo di quelle “antiche lagrime buone”, dei cari che non ci sono più, ma anche il rimpianto per una fede perduta. Forse mai radicalmente perduta, se mai nascosta dal dolore della perdita antica e da una cultura che invitava al raziocinio e all’allontanamento dalle “sirene” di una fede “irrazionale”. Non è un caso che il suono delle campane delle chiese risuoni sovente nelle sue poesie, a rammemorare una antica consonanza con l’universo intero. Con lo struggente ricordo di antichi Natali, di Madonne, di bambini, anche quelli sofferenti e poveri, “poi che il cibo manca” (“Dialogo”).

Anni prima, in Russia, un grande scrittore ricordava nel suo Diario, prima di fare il grande balzo verso i suoi capolavori, la storia di un bambino povero, che se ne va dalla squallida stanza in cui la mamma giace malata, e entra in contatto con le feste della città, le sue apparenze, la sua fretta, respinto, deriso e picchiato. Solo alla fine di questo brevissimo racconto di Dostoevskij, “Il bambino sull’albero di Natale di Gesù”, una stupenda corte di altri bimbi e di angeli va a prenderlo per accoglierlo in quello che si scopre essere il vero Paradiso, perché il bambino vede la mamma, nel frattempo uccisa dalla malattia, che scende a prenderlo, per portarlo nel vero albero di Natale, quello di Gesù, che accoglie tutti coloro, soprattutto i bambini, uccisi dalla sofferenza e dalla fame. Con una attualità impressionante, che tutti avranno colto.

Nel 1983 il premio Strega venne assegnato a “Il Natale del 1833” di Mario Pomilio, scrittore cristiano autore di “Il quinto Evangelio” che aveva narrato la ricerca del senso profondo dei Vangeli nel corso dei secoli. Il romanzo di Pomilio raccontava l’altra faccia della festa della gioia e dei doni, il dolore e l’inquietudine di uno scrittore che aveva visto morire, proprio nel giorno di Natale del 1833, l’amata Enrichetta Blondel, che lo aveva restituito alla fede.

Manzoni aveva tentato di comunicare quel grande dolore in “Il Natale del 1833”, poesia rimasta incompiuta, ma conosciuta per quell’inizio che da solo dice tutto, “Sì che Tu sei terribile!”. Non un rimprovero al Dio al quale era tornato grazie proprio ad Enrichetta, ma il riconoscimento che il passaggio attraverso il dolore era stato compiuto all’inizio attraverso il sacrificio di un Dio fattosi uomo. E non è un caso che nella lirica che apre gli “Inni Sacri”, composta nel 1813 e dedicata proprio al Natale, lo scrittore parli di un Pargolo che porge la mano all’uomo, paragonandolo allo sgorgare di una fonte destinata a far germogliare nuovi fiori tra gli uomini. Anche se essi ancora non sanno “chi nato sia”.

Molti altri sono i racconti di un Natale fuori dalle mode, tesi a riscoprire le profondità del nostro essere, ma anche la presenza di chi quel Natale non ha i mezzi per festeggiarlo, o di chi ha problemi fisici, come il Timmy di “Un canto di Natale” di Dickens, che confida di aver sperato “che la gente in chiesa lo vedesse, perché era storpio, e magari si rallegrava ricordando il giorno di Natale, chi aveva fatto camminare i mendicanti zoppi e vedere gli uomini ciechi”.

Come gli angeli della canzone di Bob Dylan che cantano all’angolo della strada, ma nessuno prova ad ascoltarli davvero.

Agensir