Cucina italiana, il valore del riconoscimento Unesco

La cultura della condivisione che passa dalle tavole aperte a tutti

La cucina italiana dichiarata patrimonio immateriale dell’umanità da parte dell’Unesco è certamente un gran traguardo per tutti gli italiani, ma non deve essere motivo di una grande abbuffata di retorica godereccia. E neppure motivo di celebrazione di decine e decine di prodotti tipici oppure di ricette “della tradizione”, di inimitabili “sapienze enogastronomiche” e via discorrendo.

Anche se quanto deciso a livello mondiale è una buona occasione per ragionare – ancora una volta – sull’importanza della filiera agroalimentare nazionale. L’Unesco ha però inteso premiare altro, un altro molto più complesso e profondo. Che certamente si nutre, nel vero senso della parola, di buoni alimenti e di ricette importanti – e che quindi ha anche nell’agricoltura e nell’agroalimentare così come nella gastronomia e nell’arte della cucina le sue basi – ma che non può essere ricondotto all’eccezionalità di una serie di piatti oppure, come si è detto, a prodotti tipici seppur inimitabili.

L’Unesco ha premiato una cultura del vivere, anzi – come detto nella motivazione – “una miscela culturale e sociale di tradizioni culinarie” e poi ancora “un modo per prendersi cura di se stessi e degli altri, esprimere amore e riscoprire le proprie radici culturali, offrendo alle comunità uno sbocco per condividere la loro storia e descrivere il mondo che li circonda”. Che è la sintesi di quanto Massimo Montanari, presidente del comitato scientifico promotore della candidatura, aveva dichiarato a La Cucina Italiana (rivista storica del comparto e tra i partecipanti alla candidatura stessa). All’Unesco sono stati presentati “non i prodotti, non le ricette ma il sentimento della cucina che accomuna tutti gli italiani. La loro confidenza con il gesto della cucina, che ha per gli italiani un fortissimo valore identitario. Attraverso la cucina gli italiani rappresentano e raccontano se stessi e la loro storia. Neppure vogliamo sottolineare le eccellenze, i cibi speciali, la cucina delle feste: ciò che ci interessa rimarcare è la cucina italiana nella sua normalità quotidiana, nel rapporto di tutti i giorni che tutti gli italiani hanno con lei. La ‘confidenza’, appunto. La cucina come amica”.

Immaterialità che conta, quindi e che certamente assume tratti concreti. Perché conta anche il significato di tutto questo dal punto di vista economico oltre che tecnico. Non si possono dimenticare gli oltre 70 miliardi di valore delle esportazioni agroalimentari italiane nel mondo, le centinaia di prodotti tipici e vini e nemmeno il valore sempre miliardario del turismo generato dalla buona tavola nostrana. Il dossier di candidatura presentato all’Unesco è accompagnato d’altra parte da una ricerca che esamina le conseguenze positive a doppia cifra degli altri riconoscimenti già conquistati dal patrimonio agroalimentare italiano (la vite ad alberello di Pantelleria, il Prosecco di Valdobbiadene, la pizza napoletana solo per citarne alcuni) e più in generale di quello che è stato indicato come “effetto Unesco” sull’economia e sull’occupazione.

Ma non è tutto qui. La scelta dell’Unesco aggiunge anche dell’altro che deriva direttamente dalla motivazione della candidatura e del suo riconoscimento: il significato della cultura dell’accoglienza. Il ruolo che proprio oggi, in tempi così complessi, può avere la cultura (italiana) della condivisione, del mettere in comune, dell’aprirsi agli altri. Quella cultura che, come indicato sempre nel dossier, trasmette memoria, cura, relazioni e identità, raccontando storie di famiglie e comunità attraverso il cibo. Quotidianità di vita che non costruisce muri ma li abbatte. Normalità di relazioni che non per questo hanno meno significato e solidità. Certo, relazioni che magari passano anche attraverso strumenti particolari come buoni prodotti, ottimi piatti, eccezionali vini, ma pur sempre relazioni positive.

Tornano alla mente, forse in modo irriverente eppure così efficace, i versi di una canzone scritta nei primi anni Settanta per una commedia che a suo modo ha fatto la storia dello spettacolo: “Aggiungi un posto a tavola che c’è un amico in più se sposti un po’ la seggiola stai comodo anche tu, gli amici a questo servono a stare in compagnia, sorridi al nuovo ospite non farlo andare via dividi il companatico, raddoppia l’allegria”.