Diocesi
Conclusione Giubileo, l’omelia integrale di mons. Checchinato
La celebrazione si è svolta il 29 dicembre in Cattedrale, nella domenica in cui la Chiesa celebra la Santa Famiglia. Il presule bruzio guarda al futuro del nostro territorio e della Calabria
Nella festa della santa famiglia di Nazareth dell’anno scorso abbiamo aperto l’anno giubilare per la nostra Diocesi e -trascorso un anno- nella festa della santa famiglia lo chiudiamo. Colgo in questa occorrenza un segno provvidenziale che aiuta a decifrare, nel segno della famiglia umana e in quello più grande della famiglia ecclesiale, il suggerimento di un luogo dove è possibile continuare l’esperienza giubilare vissuta in quest’anno. Con questa eucaristia diciamo grazie al Signore per il dono di grazia del Giubileo: ognuno porta nella propria memoria una esperienza, una celebrazione, un momento significativo per cui dire grazie. Ci sono stati momenti diocesani nella Cattedrale e nei luoghi deputati alla celebrazione dell’evento, e tutti sono stati momenti di grazia; c’è stata la celebrazione diocesana del Giubileo a Roma, in cui abbiamo attraversato le porte sante delle Basiliche romane e a cui abbiamo partecipato con circa 2500 fedeli, una esperienza di condivisione e di preghiera profonda ed entusiasmante. Dobbiamo davvero dire grazie per tutto questo, ma anche chiederci responsabilmente se il nostro impegno rispetto al Giubileo sia terminato o se, invece, proprio la celebrazione del Giubileo ci inviti a riprendere il nostro cammino con maggior slancio e consapevolezza. E allora ci facciamo aiutare da Giuseppe, proposto alla nostra attenzione dal Vangelo di oggi, per imparare da alcune sue caratteristiche umane e spirituali, per crescere nella consapevolezza della nostra vocazione umana e cristiana.
Giuseppe è uomo di cura e di custodia: nei confronti di Maria e di Gesù sa mettersi in gioco di fronte alle situazioni sempre più complesse che si trova ad affrontare: la inattesa gravidanza di Maria, la fatica del viaggio a Betlemme e la precarietà della nascita di Gesù, le visite misteriose dei pastori e dei Magi, la persecuzione di Erode e la fuga in Egitto, tutte occasioni in cui si fa carico della vita degli altri. Non è preoccupato di se stesso o della sua buona reputazione, al primo posto mette la sicurezza della sua sposa del bambino appena nato. È uomo giusto, di una giustizia che supera le regole degli uomini perché è sostanziata dall’amore; nella vicenda narrata dal Vangelo di oggi sa essere intraprendente e coraggioso perché sa affrontare con fortezza le scelte che la contingenza gli suggerisce come più opportune per la salvezza della famiglia. Oggi come allora i ricchi della terra costringono i poveri ad adeguarsi ai loro capricci e quanto è successo alla famiglia di Nazareth continua a succedere duemila anni dopo. Gli studi sul campo delle disuguaglianze economiche e sociali ci rivelano che a livello mondiale “la ricchezza dei 10 uomini più facoltosi al mondo è cresciuta, -l’anno scorso- in media, di quasi 100 milioni di dollari al giorno. La povertà estrema (condizione di chi vive con meno di 2 dollari a giorno) si riduce invece molto lentamente”(Oxfam Italia 2025). Abbiamo bisogno di portare con noi, a livello personale, familiare ed ecclesiale come impegno del Giubileo, un atteggiamento più consapevole e fattivo di custodia e di cura nei confronti dei più poveri, dei perseguitati, dei migranti, di quelli che non hanno casa o vivono in case inadeguate, degli anziani soli, così come Giuseppe ha fatto con la santa famiglia. Papa Leone ci ha ricordato la notte di Natale: “Per illuminare la nostra cecità, il Signore ha voluto rivelarsi da uomo all’uomo, sua vera immagine, secondo un progetto d’amore iniziato con la creazione del mondo. Finché la notte dell’errore oscura questa provvidenziale verità, allora «non c’è neppure spazio per gli altri, per i bambini, per i poveri, per gli stranieri» … e se sulla terra non c’è spazio per Dio non c’è spazio neanche per l’uomo: non accogliere l’uno significa non accogliere l’altro. Invece là dove c’è posto per l’uomo, c’è posto per Dio: allora una stalla può diventare più sacra di un tempio e il grembo della Vergine Maria è l’arca della nuova alleanza.”
Giuseppe è uomo di appartenenza e di resilienza: insieme a Maria, che si fa portavoce anche della sua fatica umana, quando Gesù viene perso e ritrovato nel Tempio, non comprende le parole di Gesù, ma resta fedele al suo compito di padre, e garantisce attraverso l’amore che lo lega a Maria, uno sfondo importante per la crescita di Gesù. Non sempre la dinamica familiare di Maria e Giuseppe e Gesù è stata ottimale come potrebbe sembrare ad un occhio superficiale: basterebbe leggere con attenzione il vangelo di oggi. Eppure ha un ruolo vincente nella esperienza umana di Gesù. Anche le nostre famiglie mostrano imperfezioni che facciamo fatica a condividere o a rivelare anche a noi stessi; certamente non aveva questa paura l’evangelista Matteo quando -raccontandoci la genealogia di Gesù- metteva in evidenza nel gruppo degli antenati del Signore la presenza di persone di dubbia moralità e di grandi scandali compiuti proprio da loro. Purtroppo il pensare comune del nostro tempo privilegia il singolo, l’individuale e dimentica che la nostra vocazione primigenia è legata alla relazione con gli altri, senza i quali non potremmo essere noi stessi e crescere. Meglio una famiglia difettosa che la solitudine, meglio un amore imperfetto che nessun amore, meglio insieme che ognuno per sé. E così anche su questo versante cogliamo dati problematici nel nostro tempo che promuove poco il benessere delle famiglie e privilegia ancora una volta il bene “esagerato” di alcuni ricchi. “La povertà delle famiglie in Italia ha una struttura territoriale, in termini di divario nord/sud: “nel 2023, il reddito netto medio familiare nel Mezzogiorno è inferiore a più di un quarto di quello percepito dalle famiglie nel Nord-ovest, distanza che diventa ancor più marcata se si considerano le famiglie con figli: in media una differenza di circa 18 mila euro (-33,6%) (Oxfam Italia 2025). La problematicità della situazione economica e la resilienza delle nostre famiglie che continuano a vivere qui ci fanno capire che la passione per la relazione che ha caratterizzato la famiglia di Nazaret sta anche dentro di noi, e questo non può essere che motivo di santo orgoglio; ci fa capire al contempo che avremmo bisogno di prendere la parola più frequentemente e a voce più alta perché gli ideali del Giubileo biblico (primo fra tutti la distribuzione equa dei beni della terra fra tutti i suoi abitanti) possano vedere qualche passo di realizzazione nel mondo e nella nostra terra calabrese.
Giuseppe è uomo di preghiera e di consapevolezza. Ne è testimonianza il brano evangelico appena ascoltato e i brani di Matteo che abbiamo ascoltato nei giorni passati: Giuseppe è uomo che sogna e l’evangelista pone nello spazio onirico di Giuseppe la sua relazione con Dio. Simbolicamente questo elemento è molto importante perché contiene il dato della notte che non è solo quella fisica, ma quella interiore e più problematica di Giuseppe che deve considerare ogni particolare di quanto sta accadendo; e anche il sogno che è questo spazio metastorico in cui avviene l’ascolto profondo di ciò che Dio gli chiede. Giuseppe ci insegna il discernimento, la conversazione spirituale, la sottomissione alla Parola di Dio e ci insegna a scoprire e valutare il bene dove si trova, ma anche a prendere posizione attiva di fronte al male. E così mentre ci impegniamo ad essere prossimità per i fratelli e sorelle che sono più poveri, abbiamo bisogno anche di denunciare le cause che rendono la povertà sempre più pesante e piena di disperazione nella vita di tanti. Secondo uno studio recente, a casa nostra, <<c’è la Calabria dei sommersi, dei rimossi, dei precari, degli occultati. È la Calabria dei poveri con deprivazioni materiali estreme (…). È atomizzata, sbriciolata; più fragile e indifesa, composta da calabresi isolati gli uni dagli altri, senza legami né rappresentanza né voce, senza sovrastrutture (…), che praticano, quando possono, relazioni “verticali” individuali: con la Caritas, con la parrocchia, con i servizi comunali di welfare, con il gruppo di volontariato, con l’impresa di terzo settore, con la mensa sociale. A questi calabresi sembra non pensare nessuno. Non solo perché sommersi e difficile dunque da incrociare se non si hanno sguardi sensibili, adeguati, interessati, ma anche perché è la Calabria degli outsider, del non-voto, che non protesta, che non fa rumore, che non urla, che non ha né trattori né vernici né gilets gialli né protettori; che non minaccia insomma l’ordine dominante» (Cersosimo, Nisticò 2024). Non possiamo archiviare l’anno santo se non ci facciamo carico con responsabilità e ancora maggior impegno di questi fratelli e sorelle che incrociamo anche noi, nelle nostre realtà. Concludo facendo mie ancora una volta le parole dell’omelia della notte di Natale di Papa Leone “Ora che il Giubileo si avvia al suo compimento, il Natale è per noi tempo di gratitudine e di missione. Gratitudine per il dono ricevuto, missione per testimoniarlo al mondo… Sorelle e fratelli, la contemplazione del Verbo fatto carne suscita in tutta la Chiesa una parola nuova e vera: proclamiamo allora la gioia del Natale, che è festa della fede, della carità e della speranza. È festa della fede, perché Dio diventa uomo, nascendo dalla Vergine. È festa della carità, perché il dono del Figlio redentore si avvera nella dedizione fraterna. È festa della speranza, perché il bambino Gesù la accende in noi, facendoci messaggeri di pace. Con queste virtù nel cuore, senza temere la notte, possiamo andare incontro all’alba del giorno nuovo.”
- Arcivescovo metropolita di Cosenza – Bisignano
