Angola. Qui la speranza è credere che arriverà un giorno migliore

Un Paese povero, in balìa degli interessi economici dell’Occidente. Eppure, in un Paese dove l’esistenza quotidiana è veramente dura, non mancano le espressioni sincere di fede e solidarietà. Padre Angelo Besenzoni, in Angola da 17 anni, racconta una “speranza” fatta più di vita che di parole

“Mi sento straniero due volte, ma al tempo stesso mi sento a casa in ogni luogo”. Sintetizza così l’essere pellegrini padre Angelo Besenzoni (nella foto), missionario Sma (Società missioni africane).

(Foto Angelo Besenzoni)

Lui che, nei suoi 69 anni, di posti ne ha visti diversi. È passato, infatti, dall’oratorio di Sarnico, sul Lago d’Iseo – affascinato dall’esempio di tanti sacerdoti – al seminario di Bergamo, dove ha ricevuto la spinta per la sua vocazione missionaria; dalla Costa d’Avorio alla Casa provinciale di Genova; dall’Irlanda alla Nigeria. Fino alla partenza, nel 2008, per l’Angola. Nel numero di ottobre di Popoli e Missione le sue parole richiamano il Giubileo della speranza.

“Sono grato al Signore”. Spostamenti non solo fisici o geografici, i suoi. Il suo corpo ha attraversato anche varie fasi (l’infarto, la sindrome di Guillain Barrè, un incidente): “Situazioni che, avendomi fatto vedere la morte in faccia più volte, mi hanno aiutato ad accettare i miei limiti e mi fanno essere grato al Signore per ogni giorno in più”. Anche le cose di cui si è occupato sono diverse: segno di una missione che si fa cammino di condivisione con la gente incontrata. “In Angola, dopo un primo periodo nella parrocchia del Bom Pastor con padre Renzo Adorni e padre Luigino Frattin, d’accordo con il vescovo, abbiamo fondato Santa Isabel che, dopo 17 anni conta 30 preti locali”. Poi, è nata anche la parrocchia Sagrada Família (a Desvio da Barra do Dande, Bengo) in seno al Centro di formazione della Sma, a Musseque Kikoka, nella diocesi di Caxito, dove vive tuttora.

Lunghe file di persone… “Siamo nella periferia, a 50 chilometri dalla capitale Luanda: in un grande incrocio, molto trafficato, fra la strada che conduce al mare e al Congo e l’altra che porta verso l’interno”.

“Qui, la gente vive di quel che può”, spiega il missionario.

“Quando faccio il mio turno in parrocchia (e l’altro missionario va nei villaggi), oltre a visitare gli ammalati, celebrare l’Eucarestia e occuparmi della pubblicazione dell’agenda liturgica, accolgo lunghe file di persone che vengono in sacrestia a sfogarsi, a chiedere consiglio, a fare richieste di cibo o altro”.

Fiducia nella vita. Secondo padre Angelo, la loro preoccupazione più grande, a livello spirituale, è la paura. “Se li colpisce una malattia o va male un progetto, pensano che sia a causa del malocchio”. Di contro, tuttavia, nonostante i grandi problemi economici e sociali, “hanno una grande capacità di resistenza: la speranza di chi non sa come fare per vivere, ma continua a credere che ci sarà un giorno migliore”. Una “fiducia nella vita” che “si manifesta nelle tante nascite e nella vivacità di bambini e giovani che si muovono a frotte”. Un “ottimismo di fondo” che “fa salti pindarici e ti dà lezioni come questa: la vita è più grande dei problemi che abbiamo; con l’aiuto di Dio, troveremo una soluzione”.

Ritornare al Vangelo. Di fatto, per padre Angelo, stare tra la gente “è un dono, non un sacrificio; è ritornare al Vangelo e fare festa insieme; è condividere la fede di chi non ha niente, ma trova nel Signore l’unica possibilità di riscatto. L’amore per la Chiesa e per l’amore di Dio sono, infatti, gli insegnamenti che ricevo ogni giorno”. In questo senso, il missionario scherza sul suo essere straniero: “È un vantaggio perché mi aiuta a calarmi nella parte di chi riceve, di chi è nel bisogno, di chi è accolto». Ed è una ricchezza, perché “in chiesa nessuno è ospite, seppure diverso”.(Foto Angelo Besenzoni)(Foto Angelo Besenzoni)

Economia e società. È una testimonianza di fraternità e una chiamata (per tutti) a sentirsi famiglia, a “ricordare che non siamo Chiesa quando facciamo bene le cose o siamo ben organizzati, ma quando sappiamo guardare fuori, verso i più poveri, i dimenticati, i non cristiani”. È, questa, anche una spinta alla responsabilizzazione delle comunità, sulla scia del carisma del fondatore della Sma, Melchior de Marion Brésillac: aiutare la Chiesa locale a crescere. L’Angola, in questo 2025, non celebra solo il Giubileo, ma anche il 50° anniversario dell’indipendenza.

C’è ancora molta strada da fare in questo senso

perché “l’economia varia a seconda del prezzo del petrolio, il commercio è in mano a grandi catene straniere, il costo dei mezzi è alto e gran parte del salario si spende per spostarsi, gli ospedali scarseggiano di personale e medicinale, il livello scolastico è basso”.

Una parola per l’Occidente. Eppure, la fede degli angolani è forte. Per esempio, nella camminata giubilare verso il santuario di Santo António di Kifangondo, a 18 chilometri dalla parrocchia, c’era una grande folla che camminava a piedi, cantando e pregando. “Così, mentre noi missionari – “pellegrini di speranza” – scendiamo come il buon samaritano fra i perdenti della storia e ci nutriamo della loro forza, di colpo, apriamo gli occhi su un Occidente un po’ stanco che ha perso il Vangelo e, forse, anche un po’ il cuore”.

Loredana Brigante