Editoriali
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Perché Fabienne ha ucciso?

Condannata per l’omicidio della figlia di 15 mesi, ha evocato la stregoneria.

Perché Fabienne ha ucciso?

La Corte d’assise di Pas-de-Calais, nel nord della Francia, venerdì 24 Giugno ha emesso una sentenza di condanna a venti anni di reclusione contro Fabienne Kabou, due anni in più di quelli richiesti dall’avvocato generale, Luc Fremiot. Un verdetto molto duro con cui, si è scritto sui giornali francesi, non solo è stata condannata la madre che il 19 novembre 2013 ha annegato la figlia Adelaide, 15 mesi, ma i giurati hanno condannato una donna che li ha sbigottiti da quanto emerso in cinque giorni di udienze. “In un’ora e mezzo di interrogatorio – ha detto il giudice – il caso è stato spiegato. Quello che non capiamo è il perché”. Portamento da regina, dizione perfetta, emozioni controllate, la trentanovenne franco-senegalese Kabou è sembrata non volere compassione. E’ apparsa determinata a confrontarsi con la storia della sua vita e quella della breve vita di sua figlia, dal giorno in cui è nata – il 9 agosto 2012 – a quello in cui “l’ho uccisa, quindici mesi dopo”, come ha detto senza giri di parole.
La donna ha esibito dignità, fragilità, narcisismo, una sicurezza di sé sopra le righe. Ha accusato il compagno di indifferenza e di essere manipolato dalla prima moglie e lei si è dimostrata convinta di aver fatto quel che ha fatto perché vittima di stregoneria. Insomma, Fabienne Kabou ha chiesto ai giudici di cercare l’origine del suo gesto inspiegabile nella morsa di forze oscure. Una linea di difesa su cui molto ha insistito il suo avvocato, ma l’accusa non si è fatta distogliere dall’obiettivo: capire perché una madre mette sua figlia nel passeggino, la porta su una spiaggia deserta e la lascia lì mentre la marea sale. E poi confessa e dà la colpa alla stregoneria.
L’imputata ha fornito un resoconto cronologico meticoloso del suo crimine: dopo aver controllato gli orari e l’andamento della marea ha comprato i biglietti del treno, ha lasciato Parigi con la figlia, Adelaide, e ha raggiunto la spiaggia di Berck-sur-Mer. In serata, sotto l’occhio della Luna “come un riflettore” lei ha “allattato Ada” l’ha “cullata” e lasciata sulla spiaggia deserta. E’ “fuggita”, lasciando al mare lo sporco lavoro del compiere l’omicidio. Il processo ha monopolizzato e diviso il dibattito in Francia: Fabienne è una grande bugiarda o una psicotica? “I non-psichiatri vedono più facilmente la menzogna che il delirio” ha spiegato in aula Daniel Zagury, uno dei migliori esperti francesi. Per lui, come per gli altri due membri del collegio, senza dubbio, l’imputata è una psicotica paranoica che ha tirato in ballo le streghe perché non può ammettere di avere una patologia mentale. Non solo, Fabienne Kabou, è riuscita a mettere in crisi il collegio giudicante con la sua spiccata personalità, la sua bellezza, la sua intelligenza, la confessione immediata che ha fatto del suo crimine e le parole con cui ha descritto il suo atto – il “deposito” senza violenza di una bambina accanto al mare – e con cui ha cercato di mascherarne l’orrore. “Non siamo abituati a vedere persone come lei in custodia delle carceri e prigioni” aveva riconosciuto il magistrato Herve Vlamynck. A detta dei commentatori d’Oltralpe, l’imputata ha affascinato coloro che le si sono avvicinati: gli investigatori, il giudice, il suo avvocato e la stampa.
Il pensiero va verso i processi di casa nostra, da giovani incriminati per aver ucciso la fidanzata o l’amica a mamme accusate di aver colpito a morte i propri figli. Il copione si ripete identico a se stesso e con poche variazioni di sorta. Grande spolvero di esperti, plastici di case e stanze, scialo di termini tecnici e numerose interviste rilasciate da imputati e parenti nel tentativo di usare i media per ottenere l’appoggio dell’opinione pubblica. Il combinato composto di questi fattori, lungi dal consentire una rapida soluzione dell’arcano rende il lavoro dei giudici più arduo. L’inesausta pressione mediatica infatti non permette rilassamenti, la gente vuole sapere, vuole annusare ancora il sangue e sentirsi come in un telefilm americano dove alla fine si scoprono colpevole, arma del delitto e motivazione. Solo che la vita vera percorre sceneggiature meno scontate. Così, alla fine, dopo tanto parlare, quello che resta è solo una foto di un sorriso innocente e una domanda inevasa: perché?

Fonte: Sir
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