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Sui greci la falcia ottomana

Col “Massacro di Scio” di Eugene Delacroix, immersione nella storia (1822).

Sui greci la falcia ottomana

Molti eventi della storia ci raccontano di guerre, scontri e battaglie cruente che hanno tristemente lasciato una lunga scia di morti e di dolore. Come i moti rivoluzionari greci del marzo del 1822, che gettarono il continente europeo in un profondo sconcerto, forse per la prossimità geopolitica della Grecia, ma soprattutto per la descrizione particolareggiata del terribile genocidio con cui venne fermata la rivolta. Il Peloponneso era da secoli sotto il domino ottomano, ma il vento dell’indipendenza soffiava forte lungo le coste dell’Egeo. E sul finire del mese delle Idi gli abitanti dell’isola di Chio decisero di ribellarsi e provare e spezzare le catene, ormai arrugginite, della schiavitù. Le truppe ottomane guidate dal generale Ibrahim Pascià massacrarono ventimila persone tra uomini, donne e bambini innocenti.

L’episodio sconvolse il cuore del mondo che guardava con entusiasmo la causa greca. I primi a rispondere e denunciare l’efferato crimine contro le vittime inermi, furono gli artisti ed i letterati. L’inglese George Gordon Noel Byron, ricordato come Lord Byron, che già anni prima con il poema il “Giaurro” si era preoccupato della Grecia e della sua indipendenza, decise di partecipare attivamente combattendo accanto ai ribelli. Di quell’ultimo periodo della sua vita restano importanti testimonianze come il “Diario di Cefalonia” fino alle struggenti rime delle “Ultime parole dalla Grecia”; prima di morire a Missolungi sospirando “allora guardati attorno, e scegli la tua terra, e prendi il tuo riposo”.

Al di qua della Manica, un poeta del colore e dei pennelli, Eugene Delacroix, guardò con sgomento e rabbia quegli avvenimenti e riversò tutto il dolore e lo sconcerto sulla tela dipingendo un capolavoro, bello e dolente, intitolato “Il massacro di Scio” (Parigi, Musée du Louvre). L’opera fu esposta al Salon nel 1824 e destò subito scalpore, sia per l’esaltante bellezza dei colori e del vorticoso movimento dei corpi sia per la cruda brutalità delle scene con cui veniva denunciato il massacro. Sotto un cielo terso e coperto dalle nuvole, una immensa distesa di terreno arido si perde verso il fondo. In primo piano, come sbattuto in faccia allo spettatore ed al mondo intero, si svolge l’eccidio, dove un gruppo di greci sono circondati senza scampo dai nemici. Il dipinto è diviso in due zone, due nuclei: a sinistra, in un’ambientazione dalla tonalità scura, tetro segnale della sconfitta, si accalcano in basso le figure di un giovane ragazzo in punto di morte abbracciato da una donna colta nel momento più cupo della rassegnazione, accanto ci sono due bimbi piangenti che si abbracciano impauriti per la loro tragica sorte, mentre un uomo con un fez rosso sovrasta la scena. L’acme del pathos più disperato si fa intenso nel gruppo di destra. Svetta, con il suo cavallo, un fiero soldato ottomano che tira con forza e cattiveria una donna seminuda legata alle catene, simbolo della libertà perduta, mentre con l’altra mano sguaina la scimitarra per decapitare un ribelle che chiede perdono. L’immagine si fa ancora più tenebrosa nello sguardo senza speranza dell’anziana che osserva la scena per diventare poi tristissima nella figura del piccolo bambino che disperatamente cerca un ultimo conforto dal corpo della madre morta e distesa al suolo.

È un susseguirsi di emozioni strazianti, tragedia su tragedia, soprattutto perché Delacroix mostra senza filtri la crudeltà verso le vittime. Inoltre per rendere il dipinto vibrante di realismo, egli esalta i colori forti, sfuma i contorni dei corpi e li rende mossi; accosta tonalità scure ad accese cromie dai toni chiari e sviluppa un movimento vorticoso dei corpi. Non sappiamo quanto Byron e Delacroix abbiano influito sulle vicende che seguirono: nel 1829 la Grecia riuscì ad ottenere l’indipendenza sotto il protettorato di Gran Bretagna, Francia e Russia. Amara sorte, comune a tutti coloro che si macchiano di crimini contro gli innocenti, toccò all’impero ottomano che, dopo alcuni decenni, scomparve.

Fonte: Sir
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