Chiese di Calabria
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Don Savino, un vescovo fatto popolo

Il clero di Cassano all'Jonio nella Messa crismale di quest'anno così particolare si stringe attorno al Pastore per una comunione che è un messaggio d'amore a tutta la Chiesa diocesana. 

Don Savino, un vescovo fatto popolo

Giovedì 28 maggio la Chiesa di Cassano All’Ionio si ritrova convocata per vivere la liturgia tipo della sacramentalità cristiana, la Messa crismale! Questa liturgia è teologicamente la principale epifania della pienezza del sacerdozio del Vescovo e, parimenti, un segno della stretta unione dei presbiteri con lui. In quest’anno particolare, segnato dalla pandemia, è resa ancora più significativa per il ricordo del quinto anniversario dell’ingresso in diocesi di mons. Francesco Savino. Una ricorrenza magnifica per la nostra chiesa cassanese, per stringerci attorno al nostro Pastore, con l’affetto e la preghiera di ringraziamento.

Ed è attraverso la raccolta dei ricordi, maturati in questo quinquennio, che la memoria costruisce la persona come insieme di idee e valori tendenzialmente coerenti tra loro. Attraverso la memoria: lo dice anche il Vangelo di Giovanni: “Manderò il Consolatore, il quale vi farà ricordare le cose che vi ho detto”. “Vi farà ricordare”: il cristianesimo, dunque, è ricordo. La Bibbia non propone una riflessione teoretica o psicologica sulla funzione del ricordo, ma vede nell’atto del ricordarsi una categoria teologica, che sa collegare il presente, con la progettazione del futuro. Probabilmente è vero, come dice la Arendt, che “nulla risponde al desiderio umano più del racconto della nostra storia”. 

Ma al di là di ogni ricordo da cui possiamo lasciarci coinvolgere, tale accadimento ci fa sperimentare che fra provenienza e avvenire, il tempo è avvento sempre nuovo, istante in cui si riflette l’eternità come origine e come patria nella fugacità fragile del divenire delle creature.

Allora, per vivere degnamente il tempo bisogna entrare nell’ottica che Dio è la misura del tempo, perché la Bibbia inizia quando comincia il tempo, con la creazione del mondo; finisce quando finisce il tempo, con l’Apocalisse.

Dalla personalità svettante di questo pastore trapela, a primo acchito, non solo un vasto allestimento in compositi campi della cultura, ma principalmente una grande bontà d’animo, che sa riversare sulla gente che incontra. Della bontà della sua esistenza, il segno più evidente è il suo distacco dai beni terreni, che dimostra nell’amore preferenziale per i poveri e i senza voce, perché  è convinto che il Signore si identifica, in modo speciale con loro. Infatti, «stando alle inequivocabili parole del Vangelo, nella persona dei poveri c’è una sua (di Cristo) presenza speciale, che impone alla Chiesa una opzione preferenziale per loro» (NMI, n. 49). Chi è incontrato da Dio, come don Ciccio, è naturalmente aperto agli uomini. Questa opzione preferenziale, per dirla con un linguaggio latino-americano Medellin 78 - Puebla 89, per i poveri, abbozza la figura di un “vescovo fatto popolo”, definizione, questa, provocatoriamente significativa, affibbiata, prima di lui, al martire Oscar Arnulfo Romero e a don Tonino Bello, entrambi archetipi paradigmatici, al quale, il nostro, ispira ogni sua azione. E, come loro, non esita a contestare e contrastare ogni forma parossistica di sfruttamento e d’illegalità, come il lavoro nero, l’usura, la mafia diffusa, con riverbero d’emergenza in quella più deplorevole organizzazione, che è la ‘ndrangheta, grande apparato del crimine  e della negazione  di  ogni  valore  umano e cristiano. La lotta, a queste forme becere di devianza la conduce tramite un’opera di evangelizzazione incarnata per portare a pienezza i valori umani della terra meridionale del Cassanese aiutando a supera­re le non poche devianze, ma anche contribuendo a produrre le con­dizioni storico-culturali per l’avvento di un nuovo ethos sociale, con­vocando tutti a partecipare attivamente a questa enorme impresa di riautenticazione, di nuovo battesimo, oltre e contro ogni tentazione integrista. Non gli manca il coraggio cristiano di chiedere a tutti la conversione, come cambiamento di atteggiamento, uscendo dall’io, per ritrovare gli altri, aprendoci al Padre, che donandoci la salvezza della Pasqua ci apre a cammini di vita e di speranza. Nei sui ricchi interventi, afferma sistematicamente che una Chiesa si rinnova solo se evangelizza Gesù, se lo evangelizza nelle nuove situazioni e nelle nuove istanze culturali, con nuovi linguaggi ed in nuovi spazi. È convinto assertore che l’au­tentico cristianesimo, come accoglienza vitale di Cristo, è autentico umanesimo.

Già il motto episcopale Caritas Christi urget nos (2 Cor 5,14), che rimanda agli scritti paolini, coerentemente preconizza la testimonianza di un amore intelligente che, facendosi carità, non si sottrae a difficoltà e avversità.

La chiave ermeneutica, dunque, per leggere il ministero di Savino vede concorrere due realtà, l’evangelizzazione e la promozione umana, entrambi espressioni armoniche e sinfoniche della Chiesa germinata dal Concilio.

            A chi gli domanda  le coordinate epistemologiche della sua  formazione umana e pastorale, egli risponde con subitaneità: «Il Vangelo e gli ultimi». Si presenta con semplicità, ma le cose che dice sono sempre meditate e stimolanti, riflettono il rigore dei suoi studi, è autorevole nel parlare, accogliente nei modi. É non solo vescovo di tutti, ma il vescovo per tutti. Sa esperire, in questo, la “espropriazione” propria di ogni apostolo: la non-appartenenza a sé, per essere tutto di Cristo, della Chiesa e dell’uomo. Nell’esercizio del ministero appare disponibile verso tutti ma lascia trasparire quell’inevidenza del discepolo, fatta di umiltà, povertà e nascondimento.

Scorrere le pagine del suo primo quinquennio in mezzo a noi è come ripercorrere in filigrana la sua vita. Prima che il santo Padre Francesco lo chiamasse alla dignità episcopale, don Francesco, come ama farsi chiamare, è stato Rettore e Parroco dei Santi Medici in Bitonto. Qui, con l’esempio della sua vita trasparente e intemerata e soprattutto con l’eloquenza silenziosa delle opere di carità, ha educato tante generazioni trasmettendo la vera posta in gioco: consegnare perdutamente a Dio il proprio cuore per appartenergli come prigionieri dell’Invisibile.

La storia di questi 5 anni si lascia declinare come la vicenda di un uomo che ama la Chiesa, di cui sa farsi instancabile cantore, attraverso le categorie della verità e della profezia, ma anche esigente censore, denunciandone i ritardi e le carenze. La verità che sa farsi profezia, per Savino, non è quindi una formulazione astratta di idee, non è so­lamente una tensione della ricerca umana, ma è un dono, che ha il  vol­to di Gesù, il Cristo.

I suoi scritti sono pensieri offerti nel loro sgorgare dall’intelligenza che rivelano una forte originalità; sono come lampi di luce che non possono non colpire una mente attenta al pensare autentico e rivelano una densità, una concentrazione di pensiero tali da supplire alla mancanza di dispiegamenti analitici. Nelle sue Lettere pastorali appresso ad una scrittura asciutta, ma al tempo stesso densa, compaiono idee remote e nuove, bocci preziosi che rischiarano la vita e rischiarano le zone d’ombra di un pensiero debole e “postmoderno” – sempre più ripiegato su di sé e incapace di apertura su orizzonti veritativi

Alla luce di queste brevi considerazioni, si può affermare che il paradigma del suo episcopato trova riscontro nella logica della lavanda dei piedi, che per Lui, non solo è eversiva ma, porta a maturazione la necessità di una Chiesa “estroversa”, cioè non autoreferenziale, ma “in uscita”.

In sintesi e per concludere, un episcopato, il suo, già segnato da una forte passione pastorale e profetica, per la qua­le si impone senz’altro un attestato di straordinaria competen­za cristiana e culturale.

Grande è pertanto, la riconoscenza per il lavoro svolto, mentre spontaneo è il desiderio di tradurre questo nostro sentimento in fervente orazione, invocando da Dio la copiosa ricompensa che Lui solo sa e può dare.

Pertanto, concludendo, il mio augurio che si fa preghiera è il seguente: Ella, possa essere sempre più nella fedeltà del tempo che passa mendicante dell’eterno che non passerà mai.

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