Attualità
Umanità e leadership a servizio della vera investigazione
A PdV il ricordo di Rosa Maria Villecco Calipari sul’agente segreto calabrese del Sismi
Dirigente della Squadra mobile, Nicola Calipari ha operato nella città brutia in un periodo di forte instabilità segnato da faide di ‘ndrangheta ed escalation di violenza. Il suo impegno ha lasciato un segno indelebile nella città, contribuendo a rafforzare la presenza dello Stato sul territorio. Successivamente entrato nei Servizi Segreti Italiani, ha perso la vita il 4 marzo del 2005 nel corso di una missione al Baghdad per la liberazione della giornalista Giuliana Sgrena. A PdV il ricordo della moglie Rosa Maria Villecco Calipari. Nella giornata del 26 marzo 2025 la Questura di Cpsenza, guidata dal dott. Giuseppe Cannizzaro, ne fa memoria.

Come ha conosciuto il dottor Calipari? L’ho conosciuto a Cosenza. Era arrivato da circa sei, sette mesi nella Squadra mobile della città. Era giovane, aveva 29 anni, un ragazzino che si era già fatto le ossa nella squadra mobile di Genova, negli anni duri, quelli del terrorismo. Posso ricordare l’uccisione di Guido Rossa, il sequestro e poi l’uccisione del capo dirigente del gruppo Ansaldo. Arriva a Cosenza nel 1982 per un motivo importante: in quegli anni la città aveva cambiato volto Nicola arriva come vice dirigente per questa ragione, per volere del Questore dell’epoca. Dopo neanche un anno diventa dirigente della Squadra mobile cosentina. Lo incrocio per caso ad una cena alla quale non sarei dovuta neppure andare, una cena che riporta questa data fatidica nella nostra vita: il 4 marzo. Partii un mese dopo per un contratto come ricercatore universitario in Germania. È stato un amore travolgente. Ci siamo sposati l’anno successivo, quindi lasciai l’Università e rientrai in Italia. Iniziammo a costruire insieme la nostra vita, compiendo ciascuno le proprie scelte l’uno nel rispetto dell’altra. Su questo abbiamo costruito la storia di due persone che si sono sempre rispettate anche nella diversità di pensiero e per questo si sono anche amate. Il rispetto reciproco è libertà di essere se stessi scegliendo ogni giorno l’altro. Questo era un aspetto fondamentale del nostro rapporto e lo è stato anche quando sono arrivati i figli. Lavoravamo, eravamo entrambi molto impegnati, ma non è mai sorta la considerazione che il lavoro dell’altro fosse meno importante, anche se ovviamente in termini di tempo la mia presenza era maggiore con i figli e in famiglia rispetto alla sua, prima come dirigente di Polizia, poi, negli ultimi due anni e mezzo della sua vita, quando è passato ai servizi segreti.
Suo marito ha vissuto l’esperienza dello scautismo sin da giovane nel reparto Aspromonte del Gruppo ASCI Reggio Calabria 1. Crede che quei valori lo abbiano guidato anche nella sua vita professionale? Sì assolutamente. Mia figlia è stata scout, io no. Frequentavo i Padri Domenicani a Cosenza. A Reggio Calabria gli scout erano un importante punto di aggregazione, un’occasione di grande crescita. Nicola credeva molto nel metodo scout, un sistema educativo che insegna fin da giovani le piccole responsabilità. “Condividere le scelte significa permettere agli altri di crescere nelle loro, delegando a ognuno piccole responsabilità in base alle loro capacità di affrontarle”, diceva spesso che è così che si costruisce una buona leadership. Credo sia un metodo educativo estremamente intelligente, e credo che Nicola l’abbia applicato nella sua vita oltre che nel suo lavoro. Negli anni ho incontrato tantissime persone che hanno lavorato con lui perché a Roma ha fatto una bellissima carriera in Polizia dirigendo diversi uffici complessi. L’ultimo, prima di passare ai Servizi, è stato l’Ufficio Immigrazione. Chiunque abbia lavorato con lui, funzionari, collaboratori, superiori, mi ha sempre detto:” Non l’ho mai sentito urlare, non ha mai sbattuto un pugno sul tavolo. Discuteva, parlava chiaro, certo, a volte si irrigidiva per affermare le sue opinioni, ma alla fine, quando si trattava di negoziare, trovava sempre un punto di incontro”. Ad esempio, quando c’era una crisi sindacale, il Questore chiamava Nicola per dialogare con i sindacati, perché sapeva comprendere le posizioni altrui e arrivare a una mediazione. Penso che molto di questo derivasse dall’esperienza scout. Era la sua forza, il suo tratto distintivo: nel suo lavoro non era solo un ottimo poliziotto, era soprattutto una persona attenta a chi lavorava con lui. Se un suo collaboratore aveva la moglie in ospedale, gli diceva:”Vai, non c’è bisogno che mi chiedi il permesso”, quella persona, dopo, lavorava con maggiore dedizione. Si creava un clima di fiducia: non contava il minuto, ma il supporto reciproco. Dimostrò questa sensibilità in modo particolare all’Ufficio Immigrazione a Roma, che secondo me è stato uno dei momenti più umani della sua carriera. Era un ufficio difficile, con un personale ridotto ma altamente qualificato e un’enorme mole di richieste di regolarizzazione, soprattutto nei primi anni 2000. Affrontare quelle situazioni non era semplice, ma Nicola lo fece con straordinarie capacità relazionali. Credo che questa attenzione agli altri lo abbia accompagnato per tutta la vita.
In un’intervista di Daniele Rocchi per agenSir, Giuliana Periti, ex capo reparto del gruppo Agi Reggio Calabria 1, ha ricordato suo marito come un uomo “serio e ironico al tempo stesso, leggero ma profondo, sempre con il sorriso sulle labbra come si conviene ad uno scout”. Sì, Giuliana lo conosceva prima di me. Lei e suo marito Giuseppe, che purtroppo è venuto a mancare, sono stati tra i suoi amici più cari in assoluto. Io l’ho conosciuto a ventinove anni. Cono Giuseppe credo si siano conosciuti all’età di circa sei, sette anni giocando a pallone. Quindi sì, Giuliana ha detto perfettamente. Era un uomo molto ironico, aveva un’ironia molto intelligente, raffinata, mai greve, mai volgare. Non era sarcasmo, perché mancava cattiveria, era pura ironia. Riusciva a scherzare sulle cose, ma sempre con questo sorriso sotto i baffi. Io dicevo sempre: “ Nicò, ma tu ogni tanto ridi? Perché tu sorridi, non ridi”. Ecco, con i suoi vecchi amici l’ho visto qualche volta ridere, anche fino alle lacrime. Sì, era ironico, leggero e profondo. Non lo so, la sua leggerezza purtroppo l’ho vista forse meno di quanto abbia visto la sua profondità o forse io ricordo maggiormente gli ultimi anni di un uomo carico di cose pesanti. Giuliana conserva un ricordo da adolescente, quindi ha chiaramente un ricordo più piacevole, forse.
Come sono stati gli anni nei quali avete vissuto a Cosenza?
Sono stati difficili, è stato molto complesso. C’è stato un cambiamento nella criminalità locale: non si trattava più soltanto di malavita tradizionale, ma cominciarono a emergere fenomeni più gravi come il traffico di droga e gli omicidi. Ricordo, ad esempio, un delitto avvenuto in Piazza Kennedy. Erano anni molto tesi. Mio marito, per ragioni di sicurezza, mi limitò molto nelle frequentazioni, anche con vecchi amici. Vivevamo una vita piuttosto isolata, con pochissime amicizie ristrette a quattro o cinque coppie, tra cui una che abitava nel nostro stesso palazzo e altre costituite da magistrati o colleghi con le loro mogli. Certo, conoscevamo molte persone per via del lavoro e delle mie origini, ma le frequentazioni erano ridotte al minimo. Abbiamo vissuto sette anni a Cosenza. Ricordo, in particolare, l’omicidio Cosmai, che sconvolse profondamente la città e profondamente la mia famiglia, sia me che Nicola. Mio marito mi chiese di limitare i contatti con molte persone, cosa complicata per me, che conoscevo quasi tutti. Anche la mia famiglia, impegnata in politica da anni, era ben inserita nella comunità. La situazione divenne ancora più difficile dopo l’omicidio di Cosmai: mio marito si impegnò personalmente per trovare i responsabili. Fu per lui un impegno morale importante. Giusto qualche tempo fa ho sentito la vedova Cosmai. Mi ha mandato una bellissima mail dopo aver visto il film. Pensi che non ci siamo mai conosciute di persona, ma ci siamo scritte già due o tre volte. Dopo quell’omicidio e con l’aggravarsi della situazione, la tensione aumentò ulteriormente. Fummo messi sotto scorta. A quel punto capii che qualcosa non andava. Nicola minimizzò per non creare in me preoccupazioni. Ero molto giovane, avevo 27-28 anni, e gli credetti. Poi lo chiamarono da Roma per un incarico delicato: in Australia c’erano stati omicidi di lupara bianca e le autorità australiane faticavano a comprenderne la matrice mafiosa. Avevano istituito la National Crime Authority (NCA), guidata da un magistrato, ma mancava loro un esperto di criminalità organizzata. Il governo italiano decise di inviare un funzionario con esperienza in materia. Questo trasferimento risolse due problemi contemporaneamente: da un lato, permetteva di affrontare la questione italo-australiana, dall’altro garantiva la nostra sicurezza, allontanandoci dalla Calabria e dal clima di tensione in cui vivevamo. Io partii con la bambina molto piccola, aveva circa diciotto mesi.
C’è una scena del film “Il Nibbio” che ha apprezzato particolarmente? È difficile parlare del film come se parlassi del film, è un pezzo della mia vita. Ho partecipato a tutte le sue fasi e apprezzato tutti gli attori, non soltanto Santamaria che tra l’altro con il regista Alessandro Tonda ha preso a cuore il film come impegno civile. Sonia Bergamasco ha interpretato meravigliosamente Giuliana Sgrena. Mi permetta di evitare di dire quanto adori Anna Ferzetti che ha interpretato me. È riuscita, nel giro di poco tempo, a far dire ai miei amici:” Oddio, non ti somiglia ma è uguale a te!”. È un’attrice che riesce a calarsi così fedelmente nel personaggio, è favolosa. Non so, forse la scena che amo maggiormente è quando dice a mia figlia: “La riporto a casa”. Quella, secondo me, è la scena più commovente, più emozionante di tutto il film, quella promessa d’amore. È una promessa d’amore a sua figlia, ed è bellissima.
C’è un ricordo che vorrebbe condividere sulla figura del dottor Calipari? Nicola è sempre stato definito un calabrese atipico, come se tutti i calabresi fossero pessimi, quindi Nicola era un atipico perché era diverso; poi, come poliziotto e spia atipica. Invece, vorrei che Nicola fosse un calabrese tipico, un poliziotto tipico e un funzionario dei servizi tipico. Vorrei che quella tipicità fosse il modello buono da seguire. Quello è il messaggio anche del film. È morto ma non ha fallito, ha vinto la battaglia. È stato se stesso fino in fondo. Cosa c’è di più bello che essere consapevoli di chi si è e agire coerentemente con la propria identità morale?
