Cultura
Dialetto Sì o No. Quale futuro?
Gli idiomi regionali hanno una carica creativa che li rende appetibili agli occhi dei giovani d’oggi
L’esperienza quotidiana ci insegna che, in una comunità linguistica, non esiste solo la lingua standard ma anche altre varietà, che vengono impiegate in base ai diversi contesti comunicativi. Ogni idioma è correlato a fenomeni di variazione interna, che danno luogo a delle vere e proprie differenziazioni dovute a fattori extralinguistici (spazio, tempo, stratificazione sociale, situazione comunicativa …). Con i superiori e con i colleghi, sul luogo di lavoro, usiamo un linguaggio formale, spesso tecnico; ai nostri familiari ci rivolgiamo in uno stile più colloquiale, mentre agli anziani del paese ci rivolgiamo in un Italiano ricco di dialettismi, se non proprio in dialetto. Vogliamo focalizzare l’attenzione sulla sopravvivenza dei vernacoli locali in Italia che rappresentano, senz’ombra di dubbio, uno dei più ricchi patrimoni linguistici d’Europa. Da un lato, c’è chi sostiene che queste lingue minoritarie, che convivono a fianco dell’Italiano in un contesto essenzialmente bilingue, stiano scomparendo a causa del prepotente colonialismo linguistico anglosassone; dall’altro, c’è chi tutela la presenza di questi idiomi giustificando la loro esistenza come elementi identitari, di cui i popoli non possono fare a meno. Secondo Riccardo Regis, docente di Dialettologia italiana all’Università di Torino, i dialetti si sono diffusi in aree specifiche, contribuendo al patrimonio culturale del nostro Paese. Il loro sistema fonologico, morfologico, sintattico e lessicale, tuttavia, si sta perdendo perché – spiega Regis – oggi si assiste ad una “sempre minore trasmissione intergenerazionale”. Già l’Istat, alcuni anni fa, aveva fotografato una situazione allarmante per quanto riguarda la conservazione dei dialetti. In uno degli ultimi studi condotti nel 2015, per esempio, era emerso che circa il 45,9% della popolazione si esprimeva prevalentemente in Italiano in famiglia, e solo il 14,1% parlava solo o soprattutto in dialetto, con un uso esclusivo da parte degli anziani. Sono cifre alquanto preoccupanti soggette a continui mutamenti, benché non contino tanto i dati in percentuale raccolti nel corso delle ricerche statistiche, derivati da un calcolo matematico per lo più approssimativo, quanto la consapevolezza che i parlanti continuano ad avere delle risorse linguistiche che hanno a disposizione, legate alla lingua standard o ad altre varietà regionali più o meno marcate. Regis parla di un’Italia divisa in due: nel Nord-Ovest si assiste ad una profonda crisi nell’uso di queste parlate ormai da diversi decenni, mentre nel Nord-Est e nel Mezzogiorno la gente dipende ancora da questi mezzi linguistici ancestrali. La differenza è legata a fenomeni storici: in primo luogo, la migrazione dal Sud nel triangolo industriale formato da Torino, Milano e Genova, dopo il secondo dopoguerra, ha avuto come effetto la ghettizzazione degli immigrati, i quali hanno incontrato non poche difficoltà di integrazione anche a livello linguistico; in secondo luogo, la distinzione tra Italiano e piemontese nel Nord-Ovest è sempre stata molto chiara, perché sono sistemi lontani, mentre nel Sud e nel Nord-Est c’è una minore distanza tra Italiano e dialetto, e questo facilita il mantenimento degli idiomi locali o la commistione con la lingua nazionale. Il declino dei dialetti, sempre secondo Regis, è iniziato verso gli anni Cinquanta e Sessanta del XX secolo, quando all’interno dei nuclei familiari si è imposta la tendenza a trasmettere l’Italiano come dato sostitutivo delle precedenti parlate, mettendo un po’ a rischio quel plurilinguismo che è sempre stato un valore aggiunto. Dal 2000, come ha rilevato Gaetano Berruto, tra i più importanti sociolinguisti in Italia, ha iniziato a farsi strada una sorta di “risorgenza dialettale” tramite i social, i blog, le chat, wikipedia, tiktok, whatsapp, instagram, fino a giungere al fenomeno attuale del “polylanguaging”, vale a dire l’uso caotico e indiscriminato di diversi linguaggi. Tanti giovani stanno riscoprendo il dialetto, perché vedono in esso un valido strumento creativo e immediato da reimpiegare, in particolar modo, nella messaggistica veloce e nei gerghi identitari da loro inventati. Se poi ci ricordiamo che la legge 1999/482 tutela le minoranze linguistiche e regionali, tra cui l’albanese, il catalano, il greco, le lingue germaniche, l’occitano e il francoprovenzale, allora la salvaguardia del patrimonio dialettale diventa un obbligo. Secondo Paolo D’Achille, Presidente dell’Accademia della Crusca dal 2023, ancora oggi i dialetti resistono a qualsiasi tentativo di annichilimento, e ciò è dimostrato dal fatto che quasi quattro italiani su dieci parlano ancora dialetto in casa. Se, negli anni Sessanta, il dialetto era considerato una lingua minore o poco prestigiosa, per via della volontà insita nelle famiglie di impartire l’insegnamento dell’Italiano, ora non viene più visto come segno di arretratezza sociale ma come veicolo di affettività, di scioltezza linguistica, di spontaneità e di sicurezza. “Il dialetto rafforza il senso di appartenenza e contribuisce a mantenere vivo il legame con la comunità di origine. Tuttavia, non c’è soltanto un valore identitario: esiste anche un uso artistico del dialetto, che attraversa la poesia, il teatro, la musica, e che può essere apprezzato anche da chi non lo parla”, ha riferito D’Achille in una recente intervista a Il Messaggero. La scuola, i centri culturali e i media possono fare tanto per mantenere viva la memoria culturale dei vernacoli. Non si possono insegnare perché non hanno mai raggiunto il livello di standardizzazione, ma la loro grammatica è implicita. Si può, tuttavia, incentivare la trasmissione orale giornaliera puntando sulla letteratura e sulle produzioni artistiche, autentici veicoli di diffusione anche linguistica. Ci sono vari progetti come quello proposto dalle edizioni Panini, che hanno dato alle stampe e venduto in tutta Italia il fumetto di Topolino in diversi dialetti, riscuotendo un grande successo.
