Non possedere nulla, donare tutto: il segreto della vita monastica

Nel solco della tradizione benedettina, Leone XIV ricorda nella “Dilexi te” che il chiostro non è fuga dal mondo ma luogo dove imparare a servire Cristo meglio. Nella vita monastica, le mani oranti diventano canale d’amore che si apre ai poveri e agli esclusi. Il Papa invita a restare nella corrente viva del Vangelo

La tradizione monastica che, di anello in anello, trapassa i secoli e innerva la nostra civiltà possiede una forza che nessuna calamità è mai riuscita a stroncare: non possedere nulla, affidandosi al Padre che a tutti provvede.
Misteriosamente, le Mani creatrici del Padre giungono e assistono, ma richiedono una sollecitudine precisa che diventa una molla: il monaco e la monaca non vengono sorretti, custoditi e serviti in ogni necessità perché la loro vita diventi comoda e senza problemi.

Sperimentano certamente il grande miracolo quotidiano nella misura in cui le Mani del Creatore, attraverso le loro mani oranti, vengono rivolte alle mani di chiunque si trovi nella necessità o sia gravato da un bisogno.

Solo allora il flusso diventa irresistibile e incontenibile: da quelle Mani che plasmarono Adamo alle mani di chi vive una consacrazione monastica, un canale libero e vuoto che non conta nulla ma che lascia scorrere il flusso che si posa su chiunque stenda le mani in una supplice richiesta.

Il monachesimo, che affonda le sue radici in padre Benedetto, è stato questo flusso gorgogliante che ha irrigato l’Europa e ha soccorso chiunque, senza attendersi nulla in contraccambio. Dalle Mani, attraverso le mani oranti e operose, alle mani di chiunque.
Papa Leone cita la grande Regola benedettina:

Si usi sollecitudine soprattutto nell’accogliere i poveri e i pellegrini, perché è in loro che si accoglie maggiormente Cristo. Non erano solo parole: per secoli i monasteri benedettini sono stati luoghi di rifugio per vedove, bambini abbandonati, pellegrini e mendicanti.

Il monito suona netto e abbatte quella possibile chiusura che rende falsa l’esistenza monastica nella sua pretesa di servire Cristo: Il chiostro non è solo un rifugio dal mondo, ma una scuola dove si impara a servirlo meglio.

Chiaramente, nei secoli, lo Spirito Santo ha donato alla Chiesa tradizioni e carismi monastici con accenti diversi e accezioni particolari.
Il silenzio e l’eremitismo non possono prestarsi – pena tradire il carisma ricevuto in dono – a un’accoglienza sistematica e concreta, ma devono assolutamente interrogarsi sulla povertà di chi non conosce l’Altissimo, di chi non lo cerca o addirittura lo nega e lo esclude dalla propria mente e dal proprio cuore.
Il flusso che sgorga dalle Mani del Creatore incontra, in un monachesimo che respira silenzio e solitudine, mani che costantemente sono rivolte ai poveri, ai più poveri, a chi non presta ascolto al ribollire del flusso che vuole donarsi e farsi riconoscere.
La contemplazione che non sia sempre aperta e dilatata si ritorce sul monaco e sulla monaca, li rende impermeabili al flusso e, lentamente, li fossilizza e li allontana dall’annuncio evangelico.

Il grido “Ti ho amato” (Ap 3,9) si apre il suo varco e travolge con la sua potenza solo quando il monaco e la monaca, nel loro silenzio orante e stupito, lasciano vibrare interiormente un altro grido che li fonda nella loro attesa:

Perciò, ascoltando il grido del povero, siamo chiamati a immedesimarci col cuore di Dio, che è premuroso verso le necessità dei suoi figli e specialmente dei più bisognosi.

Non solo: Non è possibile dimenticare i poveri, se non vogliamo uscire dalla corrente viva della Chiesa che sgorga dal Vangelo e feconda ogni momento storico.

Il monaco e la monaca vogliono essere ubiqui, compresenti a ogni istante della storia, in ogni suo evento, perché radicati in Cristo che li volge al Padre; per questo portano impresso in loro questo monito, un sigillo ardente.