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Camporini (Iai): “Con occupazione la sorte di Hamas è segnata, ma ci saranno pesanti perdite per Israele”
Il Gabinetto di Sicurezza israeliano ha approvato l’occupazione di Gaza City. Il generale Camporini spiega le implicazioni militari e politiche della decisione: “L’invasione è operativa, l’occupazione è politica. Sradicare Hamas sarà possibile, ma il prezzo sarà altissimo, anche in termini di vite civili e rischi strategici futuri”
Agli inizi di agosto il Gabinetto di Sicurezza israeliano ha approvato il piano per l’occupazione di Gaza City, la principale città della Striscia, nonostante la contrarietà dei vertici militari e delle famiglie degli ostaggi. Cinque i principi su cui si basa il piano voluto da Netanyahu: il disarmo di Hamas; il ritorno dei 50 ostaggi rimasti, 20 dei quali presumibilmente ancora vivi; la smilitarizzazione della Striscia di Gaza; controllo della sicurezza israeliana nella Striscia di Gaza e, infine, l’istituzione di un’amministrazione civile alternativa ad Hamas e all’Autorità Palestinese. Gli attacchi in corso con jet, droni ed elicotteri, stanno provocando centinaia di morti palestinesi mentre i carri armati avanzano sul terreno. Interrotti telefoni e internet. Finora circa 400 mila gazawi, sul milione di residenti stimati dall’Onu, hanno lasciato Gaza City. Sarebbero, secondo l’esercito di Israele (Idf), più di 2500 i miliziani di Hamas pronti a combattere usando tunnel, imboscate e facendosi scudo con gli ostaggi. Di questa nuova fase della guerra a Gaza ne abbiamo parlato con il generale Vincenzo Camporini, già capo di Stato maggiore della Difesa e dell’Aeronautica e Consigliere scientifico dell’Istituto Affari Internazionali (Iai).

(Foto ANSA/SIR)
Generale, qual è la differenza tra invasione e occupazione?
L’invasione è un’operazione militare, l’occupazione è un’operazione politica. Dopo un’invasione, ci si ritira oppure si occupa. Sono due concetti che appartengono a mondi diversi: il primo riguarda le operazioni militari, il secondo il comportamento politico al termine di un’operazione.
Quindi, l’attuale scelta israeliana rientra in una logica politica?
Sì. L’occupazione implica una decisione politica: eliminare e sradicare Hamas sotto ogni profilo. Dal punto di vista operativo, invece, parliamo di un’invasione in ambiente urbano. È un contesto estremamente pericoloso, che provoca grandi distruzioni: bisogna impedire a chi resiste di utilizzare infrastrutture per agguati o ordigni esplosivi. Per questo si procede alla bonifica di un settore, di un isolato, di un edificio, che poi deve essere presidiato per evitare che venga rioccupato. In un ambiente urbano ciò comporta spesso la demolizione di molte costruzioni.
Che conseguenze ha per la popolazione civile?
Gravissime. I civili sono costretti ad abbandonare le proprie case.
A Gaza il problema è amplificato dalla densità e dalla limitatezza geografica: non ci sono spazi per sfollare.
Inoltre, parlare di ‘civili’ è complicato, perché i miliziani di Hamas non hanno uniformi e si confondono tra la popolazione.
C’è il rischio che Israele si impantani a Gaza, così come avvenne, per esempio, agli Stati Uniti in Afghanistan o ai sovietici?
No, perché Gaza è un ambiente chiuso. È molto difficile, se non impossibile, far arrivare rifornimenti militari dall’esterno. La possibilità di una guerriglia locale è quindi minore. Resta però il rischio politico: un’operazione contro un’entità terroristica può generare nuovi proseliti. Eliminato un terrorista, possono nascerne altri tre.
È realistico sperare nella liberazione di tutti gli ostaggi rimasti nelle mani di Hamas?
Sono molto scettico.
Credo che la sorte degli ostaggi sia segnata.
Se ciò dovesse accadere, e speriamo di no, potrebbe dare ulteriore spinta all’esercito israeliano per scacciare la popolazione gazawa dalla Striscia?
Si tratta di un obiettivo politico, non militare. È un’ambizione più volte espressa dalla destra israeliana, ma non è lo scopo delle forze armate.
Esiste il rischio di un’insurrezione popolare armata contro Israele?
Non al momento. Certo, azioni di questo tipo rischiano di suscitare nuove leve per il terrorismo. Ma se non dispongono delle armi necessarie, il fenomeno resta sul piano ideologico più che operativo.
La sorte militare di Hamas, dunque, è segnata?
Sì, penso di sì. Ma ci vorrà molto tempo e ci saranno costi elevati anche per l’esercito israeliano, che subirà perdite significative.
Come spiega che un esercito tecnologicamente avanzato e preparato come quello israeliano non sia riuscito, in due anni, a prevalere su Hamas?
Perché l’ambiente urbano è particolarmente difficile. Richiede grandi numeri: “boots on the ground”, uomini sul terreno in quantità. L’esercito israeliano è relativamente piccolo ed è impegnato su più fronti: la frontiera nord con il Libano contro Hezbollah, la Siria, la Cisgiordania (West Bank).
Se non si impiega un numero adeguato di soldati per presidiare ciò che è stato bonificato, il rischio è che il giorno dopo si debba ricominciare da capo.
