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Donne ucraine dal Papa e dal card. Zuppi: “Non dimenticatevi dei prigionieri ucraini nelle carceri russe”

Il racconto di dolore e l’appello per i propri cari
Hanno tra le mani le foto dei loro familiari. Ne parlano con la voce soffocata dall’emozione e dalle lacrime. Sono le mamme, le sorelle, le mogli e le fidanzate non solo di soldati ucraini, ma anche di civili e medici che si trovano o nelle prigioni russe o sono scomparsi. Sono una trentina di donne ucraine e sono in questi giorni a Roma per far conoscere la storia dei loro cari e invocare aiuti, in tutti i modi, in tutte le sedi internazionali possibili. In questi giorni, accompagnate dall’ambasciatore russo presso la Santa Sede Andrii Yurash e dalla vice premier dell’Ucraina Iryna Vereščuk, hanno incontrato mercoledì 17 settembre Papa Leone al termine dell’udienza generale e, successivamente, il card. Matteo Zuppi, inviato speciale della Santa Sede per la missione umanitaria in Ucraina. La paura più grande è che sul destino dei loro cari, cali anche un velo di silenzio. Per questo la vice premier Vereščuk assicura:
“La guerra finirà solo quando l’ultimo prigioniero tornerà a casa. È importante non dimenticare che queste persone ci sono e devono essere liberate ed è importante ricordalo su tutte le piattaforme internazionali possibili”.
“I nostri familiari – racconta una donna – hanno difeso la patria fin dai primi giorni dell’aggressione russa su vasta scala. Alcuni di loro si trovano da oltre 3 anni in prigione e vivono in condizione disumane. Su di loro pesano sentenze del tutto ingiustificate e fasulle. Abbiamo portato con noi una cosa preziosa: le loro lettere dalla prigionia. Raccontano il buio in cui vivono ma anche la loro voglia di vivere. Vogliamo essere la loro voce”. Tetiana mostra un libro. Ha per titolo “Gli angeli di Mariupol”. Lo sfoglia e tra le foto indica quella di suo figlio. Aveva 24 anni quando è morto.
“Per noi è importante che la memoria dei nostri figli sia conservata. Hanno dato la vita per il nostro Paese”.
Le donne hanno tutte parole di gratitudine per la missione che il card. Zuppi sta portando avanti. Sono rappresentanti di varie organizzazioni che riuniscono i familiari dei difensori che hanno combattuto sui vari fronti di guerra. Kharkiv, Donetsk, Lugansk, Sumy, Mariupol. Appaiono per la prima volta anche i soldati che hanno combattuto a Kursk, nella regione russa al confine con l’Ucraina. E che si trovano ora nelle prigioni russe con addosso una sentenza pesantissima: quella di essere “terroristi”. Queste donne hanno alle spalle anni di ricerche e di lotta. “Abbiamo fede nel bene”, dicono. “Abbiamo fede nell’umanità. Abbiamo fede nella preghiera”. È un lavoro immenso che si scontra con il muro del silenzio. “La Russia non conferma. Non risponde alle nostre domande mentre la prigionia dei nostri cari si prolunga sempre di più”. Preoccupa l’arrivo dell’inverno e del freddo che renderà le condizioni delle detenzioni ancora più proibitive. Preoccupa il fatto che i prigionieri sono spesso sottoposti a torture e violenze di ogni tipo. Non ci sono solo soldati prigionieri ma anche donne, civili, addirittura medici. “Sono partiti per salvare la vita alle persone”, dice la familiare di un medico detenuto. “Ora hanno bisogno del nostro aiuto per essere salvati”. Ci sono ragazzi giovanissimi, nati nel 2000. Nel 2001, addirittura nel 2002. Tra i nomi, emergono non solo i prigionieri ma anche le persone scomparse durante i combattimenti: anche sul loro destino è calato un velo di mistero.
I loro familiari chiedono di avere informazioni su di loro e in caso di morte accertata, di poter recuperare almeno i corpi.
La voce dei bambini. Nel gruppo c’è anche un ragazzo, Victor, che ora vive e studia in Italia. “Parlo a nome dei bambini – dice – che non possono abbracciare i loro padri, i loro zii, i loro fratelli. I bambini non capiscono le dinamiche della politica o della diplomazia ma capiscono il calore dell’abbraccio di un familiare. Io ho perso mio zio in questa guerra. Non sappiamo più nulla di lui. Abbiamo chiesto al card. Zuppi di aiutarci a portare luce laddove c’è ora solo buio e di riportare a casa i nostri cari”. Il cardinale – così ci dicono – ha accolto queste parole e le ha ascoltate. Ha assicurato che farà “di tutto perché possiate ricevere notizie dei vostri cari”. La cosa più atroce è quando non si sa nulla e si immagina tutto. È un lavoro fatto con il cuore, non solo con diplomazia. Ed ha aggiunto, riferiscono ancora:
“Tutte le persone che voi portate nel cuore non sono una pratica. Hanno un nome e una storia. Parliamo dei vostri figli, mariti, fratelli. Per questo c’è tanto cuore. Ne parliamo oggi con sofferenza e con speranza. Speriamo in futuro di poterne parlare con gioia”.
M. Chiara Biagioni – Agensir