Dom Petruzzelli, abate di Cava dei Tirreni, “vi racconto il legame con Scalzati”

Intervista di Parola di Vita al presule campano, in visita al santuario del Soccorso di Scalzati per i 500 anni

Cinquecento anni per il santuario di Santa Maria del Soccorso di Scalzati, nella località Casole Bruzio del comune di Casali del Manco. 

La data del 1525 rimanda a un’implantazione di monaci fuoriusciti dall’abbazia florense di San Giovanni in Fiore e alla figura del priore Francesco Notarianni. 

Tale data, certamente fondamentale per la ricostruzione della storia del Santuario, non ne rappresenta però l’origine assoluta. Difatti, a un certo punto della sua storia più antica, il sito venne probabilmente acquistato dai monaci di Cava dei Tirreni, nella cui abbazia v’é documentazione relativa al santuario scalzatese. 

Per l’occasione dei 500 anni, la santa Messa solenne nel giorno della festa dell’8 settembre è stata presieduta da dom Abate Petruzzelli, abate di Cava dei Tirreni, che per tale qualità guida l’omonima diocesi. Lo abbiamo intervistato. 

L’abbazia di Cava dei Tirreni è un luogo legato a Scalzati. Che significato ha la sua visita? 

Il significato è di rinsaldare questa comunione, sia spirituale ma anche storica. Sono contento di essere in questo Santuario, per celebrare insieme la solennità della natività della beata vergine Maria, ma soprattutto con la Madonna del Soccorso.

C’è una storia da recuperare, anche da far conoscere nei nostri borghi, ai nostri fedeli. 

Certo. È importante far conoscere, far capire alla gente, soprattutto come cristiani, che abbiamo una storia e una comunione che ci deve legare tra di noi. Per questo dovremmo affidarci proprio alla protezione e all’intercessione della Madonna del Soccorso, per vivere i valori cristiani e umani, che molto spesso la nostra società allontana e margina. Questa giornata, ma tutta la nostra vita, occorre a chiedere alla Madonna di essere più legati a lei perché è da lei che arrivano le grazie ed è lei che ci conduce a Gesù. 

Lei porta un’esperienza di vita monastica. Questa sembra anacronistica oggi, ma perché può dire qualcosa oggi la vita monastica?

La vita monastica oggi ci dice che abbiamo bisogno della preghiera. Il monastero è un luogo dove si prega e l’uomo di oggi ha bisogno di recuperare la vita spirituale, e soprattutto la preghiera perché oggigiorno vedo che il sacro, la vita spirituale è messa da parte e ai margini delle persone. Invece c’è bisogno di un recupero. Anzi, credo che proprio la situazione che viviamo, di sofferenze, anche queste guerre, di afflizioni, deve riportarci e condurci a una vita spirituale, a una vita di preghiera più intensa, altrimenti non andiamo da nessuna parte. 

Lei è di fatto nel territorio di Gioacchino da Fiore. Che valore ha questa figura? 

Gioacchino da Fiore, con la sua teoria dell’era dello Spirito Santo, ci insegna che nella Chiesa oggi c’è bisogno anche di riscoprire la terza persona della Santissima Trinità, che è lo Spirito Santo, e quindi invocarlo costantemente. La figura storica e l’opera di Gioacchino da Fiore della sua congregazione ha dato alla Chiesa uno stimolo, un modo di riflettere anche alla dimensione dello Spirito Santo. 

La Chiesa sta vivendo il processo sinodale. Quanto può essere importante soprattutto per favorire la corresponsabilità ecclesiale? 

Ho partecipato alle due assemblee precedenti come abate ordinario, e abbiamo fatto un’esperienza di Chiesa molto bella, dove si è partiti dalla base. Papa Francesco voleva che si ascoltassero tutti, di essere aperti a tutti ed è questa l’esperienza che ho fatto nelle due assemblee sinodali. Proprio ascoltare è stata una bella esperienza. Intanto viviamo soprattutto lo sfondo di questa assemblea sinodale, che è quello della speranza. In questo anno giubilare abbiamo l’occasione di recuperare anche la dimensione e la virtù della speranza.