La statua imbrattata e la memoria ferita

C’è un gesto che emerge dalle cronache di piazza: l’imbrattamento della statua di san Giovanni Paolo II davanti alla stazione Termini. Vernice nera, una falce e martello, un insulto triviale. Non è solo vandalismo: in un momento in cui le piazze italiane reclamano pace, giustizia, diritti, qualcuno sceglie di colpire la memoria di un Papa che ha fatto della riconciliazione tra i popoli, del dialogo e della ricerca della pace segni indelebili del suo pontificato. Giovanni Paolo II è ridotto a bersaglio di uno scontro sempre più polarizzato.

Wojtyla non può essere arruolato nel campo delle bandiere contrapposte; per questo il gesto, per quanto intollerabile, va oltre lo scontro politico.

Se anche un’immagine sacra diventa preda di slogan aggressivi, significa che la democrazia culturale – sempre più vittima della sindrome del rumore – è brutalmente ferita: non si ascolta, si aggredisce. E il passaggio è drammatico: colpire un simbolo non è un atto innocuo; è la spia di un clima che rischia di diventare sempre più tossico.

Il monumento di Oliviero Rainaldi, inaugurato nel 2011 e dedicato all’accoglienza, non è mai stato neutro. Le polemiche iniziali, la discussione estetica e simbolica, lo hanno reso un luogo di confronto.

Non basta dunque indignarsi. Serve domandarsi quale intolleranza alimenti il ricorso alla violenza e alla distruzione, fino a non distinguere più tra simboli religiosi e avversari politici.

È una domanda che interpella tutti, non solo i cattolici, e la risposta non può limitarsi alla condanna.

La speranza è che gli autori vengano presto identificati, ma se anche la vernice si cancella, la ferita resta. Bisogna allora ripensare il valore della memoria e restituirla al suo contesto. Difendere la memoria, oggi, è un atto politico e spirituale insieme; non per strumentalizzarla, ma per restituirle dignità.

San Giovanni Paolo II ha attraversato il Novecento con la forza di un testimone capace di parlare a credenti e non credenti, di denunciare ogni totalitarismo e di aprire varchi di dialogo. Imbrattare la sua statua non ne cancella l’eredità, svela invece la fragilità di una cultura che non sa più reggere il confronto e che al dialogo preferisce l’offesa.

Roma, città che custodisce memorie millenarie, non può permettere che i suoi simboli siano trasformati in bersagli d’odio. Non si tratta quindi solo di ripulire il bronzo, ma di rigenerare l’anima pubblica. Perché una democrazia che lascia profanare la memoria senza rigenerarla ha già perso un pezzo della sua identità.