Egitto. Monastero di Santa Caterina sul monte Sinai a rischio confisca

Tensione tra Egitto e Atene per il possesso della proprietà territoriale su cui sorge l’antico luogo di culto cristiano a tradizione greco-ortodossa

Il più antico monastero cristiano ancora esistente è al centro di una controversia tra il governo del Cairo e quello di Atene. Si tratta del monastero di Santa Caterina, un gioiello di spiritualità, di storia e di architettura, situato ai piedi del Monte Sinai in Egitto. Un tribunale egiziano ha emesso una sentenza, con cui ha stabilito che il terreno su cui sorge il complesso è di proprietà statale. La disposizione del 29 maggio scorso prevede il controllo, da parte dell’Egitto, dell’area di 7000 metri quadrati e la confisca di tutti i beni del sito religioso, tra cui biblioteche, reliquie, manoscritti e icone di valore. I monaci, tuttavia, potranno continuare a praticare il culto cristiano,  ma non deterranno più il controllo dei terreni circostanti. Atene e Bruxelles si dicono preoccupate per questo tentativo di appropriazione indebita del monastero, per cui promettono battaglia legale. Il contenzioso è scoppiato, forse, in seguito ad una causa intentata da alcune persone vicine ai Fratelli Musulmani, il movimento politico-religioso fondato da Hasan al-Bannā negli anni ’20 del Novecento, diffusosi in Egitto e nel resto del mondo arabo-islamico, noto per le sue azioni terroristiche e per le sue posizioni intransigenti. Il cenobio è sopravvissuto a tanti imperi e alle invasioni di vari popoli nel corso dei secoli, ma la preoccupazione principale dei monaci che vi risiedono è che saranno “ospiti nella loro stessa casa”. Al momento hanno sospeso le visite all’interno dell’abbazia dedicandosi solo alle preghiere, nella speranza che Dio interceda in loro favore e che la diplomazia internazionale riesca a risolvere la diatriba. Il monumento religioso è un’istituzione a tradizione greco-ortodossa molto importante nella storia del cristianesimo. Il suo destino è una questione politica prioritaria per la Grecia, per cui la proprietà del sito è qualcosa di non negoziabile. Il governo egiziano vuole forse avviare su quest’area progetti turistici, città futuristiche e megalopoli di vetro. La Grecia è alla ricerca di una soluzione che non infranga i delicati rapporti di cooperazione marittima nel Mediterraneo orientale con l’Egitto. Entrambi i paesi, infatti, hanno stipulato accordi reciproci per arrestare l’avanzata turca, per gestire i flussi migratori in Nord Africa e per trasferire energia dall’Egitto in Europa, passando per la Grecia. Il monastero di Santa Caterina sul Monte Sinai fu fondato nel 527 d.C. (VI secolo). La sua storia si collega alla tradizione biblica di Mosè che, alle pendici del monte Horeb (Sinai), ricevette la visione del roveto che ardeva ma non si consumava. Qui Dio gli affidò il compito di condurre gli Israeliti dall’Egitto verso la terra di Canaan e gli consegnò le tavole della legge. La fondazione del luogo si fa risalire a Sant’Elena, madre di Costantino che, nel 328, ordinò l’edificazione di una cappella votiva nel punto dove, secondo la tradizione biblica, avvenne l’episodio del roveto ardente, oggi piantato all’esterno. Egeria, monaca della Gallia che visitò i luoghi sacri  durante un pellegrinaggio fatto tra il 381 e il 384, nell’Itinerarium Egeriae fornisce l’informazione più antica circa l’esistenza di questo monastero. Tra il 527 e il 565 Giustiniano fece costruire un nucleo architettonico vicino alla cappella votiva, chiamato “monastero della Trasfigurazione”, ordinò in seguito l’innalzamento delle mura di protezione, lungo il perimento del complesso, al fine di difenderlo dagli attacchi dei predoni, e finanziò le prime icone religiose. Nel corso del VII secolo il sito divenne caro perfino agli arabi, come dimostra un documento forse scritto di proprio pugno da Maometto, la “Carta dei privilegi”, grazia al quale il monastero cristiano poté godere dello status speciale di protezione e di sicurezza. Questo perché il profeta dell’Islam trovò rifugio dai suoi nemici politici all’interno delle mura dell’edificio di culto. I monaci furono poi dispersi ma tornarono nell’abbazia, sempre protetta dalla cinta muraria in pietra locale, nel IX secolo. Ritrovarono i resti di Caterina d’Alessandria, la santa martirizzata dai romani per essersi rifiutata di rinnegare la fede cristiana in onore agli dei pagani, destinata al supplizio della ruota dentata e quindi decapitata. Le dedicarono il monastero conservando al suo interno le sue spoglie mortali, portate sul monte Sinai forse dagli angeli, proprio nel luogo del roveto ardente. Il monastero non fu mai soggetto ad un processo di islamizzazione, nonostante la costruzione di un moschea da parte dei Fatimidi arabi che non fu mai aperta al pubblico, perché non orientata in direzione della Mecca. Il complesso religioso si affiliò ad altri siti di culto in Asia Minore e dislocati tra Costantinopoli, Egitto, Palestina, Siria e le isole di Creta e Cipro, e fu sottoposto a giurisdizione da parte del patriarcato ortodosso di Gerusalemme. Rimase in vita anche durante l’epoca napoleonica e durante il colonialismo, oltre a ricevere la visita di vari studiosi come Konstantin von Tischendorf, che analizzò i testi antichi e scoprì il “Codex Sinaiticus”, il manoscritto in greco onciale che, originariamente, preservava l’Antico Testamento nella versione greca dei Settanta, l’intero Nuovo Testamento e altri apocrifi (Lettera di Barnaba, Pastore di Erma), ora custodito alla British Library di Londra. Storicamente il monastero ha dignità di chiesa autocefala che può amministrarsi da sola, ospita circa venti monaci guidati da un abate, vescovo di Sinai, ed è meta di pellegrinaggio dei fedeli diretti in Terra Santa. Dichiarata patrimonio UNESCO nel 2002 per la sua architettura bizantina, questa testimonianza paleocristiana è circondata da bastioni, torri e camminamenti lungo il perimetro, consta di un campanile che affianca la chiesa ed è arricchita all’esterno da un giardino, dal cimitero dei monaci e dall’ossario. All’interno vi sono vari edifici tra cui un ostello, ma il luogo principale è il “Katholikon”, la basilica bizantina eretta da Giustiniano, che ha un orientamento obliquo e una facciata a capanna. Il monastero custodisce la seconda più vasta raccolta di codici antichi bizantini, manoscritti e icone dopo la Biblioteca Apostolica Vaticana. Vi sono circa 4500 documenti in varie lingue, tra cui greco, copto, armeno e arabo, molti dei quali sono stati digitalizzati per ovviare al problema del deterioramento della carta. Non mancano pregevoli mosaici, calici, icone bizantine del V-VI secolo realizzate con la tecnica dell’encausto, che prevede l’uso di colori mescolati alla cera attraverso il calore. Tra queste immagini abbiamo quella bizantina del “Cristo Pantocratore” risalente al VII secolo. Il Padre è ritratto con un codice in mano del V secolo, con folta barba, capelli fluenti, un piccolo ciuffo sulla scriminatura e i baffi alla mongola. Vi sono anche le icone con San Pietro, con la Vergine, con san Teodoro, con san Giorgio, con san Sergio e san Bacco, oltre a reliquari come quello dedicato a santa Caterina d’Alessandria.  Nell’abside centrale spicca il mosaico della “Trasfigurazione di Cristo” del VI secolo, coevo ai mosaici bizantini di Ravenna. Il sito è da sempre un punto di incontro tra culture e credi diversi, nonché un luogo sacro per le religioni monoteiste (cristianesimo, ebraismo e islam). Il suo isolamento lo preserva da secoli come luogo di pace e di dialogo, di riflessione e di meditazione. È bene che venga sottratto a logiche di interesse economico e continui ad essere dedicato a Dio, senza far spegnere mai il roveto ardente che continua a bruciare. Il comitato centrale del Consiglio Mondiale delle Chiese ha chiesto al segretario generale di inviare una lettera di protesa al presidente al-Sisi, chiedendo un accordo chiaro per il riconoscimento perpetuo del monastero e la protezione della vita religiosa al suo interno. Un altro appello è stato rivolto all’Unesco, affinché preservi questo luogo come patrimonio dell’umanità.