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Suburra e il malaffare di Roma

La pellicola, caratterizzata da una regia impeccabile, cede però alla semplificazione.

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Suburra e il malaffare di Roma

C’è un filone che fin dagli anni sessanta attraversa il cinema italiano: è quello del cinema politico-ideologico, ora declinato con politiche autoriali ora attraverso i generi popolari. A fronte di un Elio Petri il film poliziottesco, in risposta ad un Gillo Pontecorvo il western all’italiana. Erano due forme, entrambe efficaci, che raccontavano i propri tempi, mettevano in scena le storie e i personaggi dell’Italia di allora, con un occhio per lo più polemico. Dopo un periodo in cui sembrava che il filone si fosse esaurito (negli anni ottanta e novanta il nostro cinema raccontava storie per lo più intimiste e minimaliste), oggi si assiste ad un rifiorire dello stesso, non solo al cinema ma anche in televisione. Tra i registi che più praticano, con mestiere, questo genere troviamo senz’altro Stefano Sollima, figlio d’arte (il padre è stato uno dei nomi di punta proprio del poliziottesco all’italiana), che dopo il coraggioso “ACAB”, sulla corruzione nella polizia, e la serie televisiva Gomorra, si cimenta con “Suburra”, tratto dall’omonimo romanzo di Giancarlo De Cataldo, che raccontava fra realtà ed invenzione narrativa una storia sul malaffare che domina la città di Roma.Il titolo è stato scelto perché, nell’antica Roma, la Suburra era il quartiere dove il potere e la criminalità segretamente si incontravano. Dopo oltre duemila anni, quel luogo, ci dice il film, esiste ancora. Perché oggi, forse più di allora, Roma è la città del potere: quello dei grandi palazzi della politica, delle stanze affrescate del Vaticano (sempre tirato in ballo nei film contemporanei) e quello, infine, della strada, dove la criminalità continua da sempre a cercare la via più diretta per imporre a tutti la propria legge. Il film è la storia di una grande speculazione edilizia che trasformerà il litorale romano in una nuova Las Vegas. Per realizzarla servirà l’appoggio di Filippo Malgradi (Pierfrancesco Favino), politico corrotto e invischiato fino al collo con la malavita , di Numero 8 (Alessandro Borghi), capo di una potentissima famiglia che gestisce il territorio e, soprattutto, di Samurai (Claudio Amendola), il più temuto rappresentate della criminalità romana e ultimo componente della Banda della Magliana. Ma a generare un inarrestabile effetto domino capace di inceppare definitivamente questo meccanismo saranno in realtà dei personaggi che vivono ai margini dei giochi di potere come Sebastiano (Elio Germano), un PR viscido e senza scrupoli, Sabrina un’avvenente escort (Giulia Elettra Gorietti), Viola (Greta Scarano) la fidanzata tossicodipendente di Numero 8 e Manfredi (Adamo Dionisi) il capoclan di una pericolosa famiglia di zingari.La pellicola è dominata da un incalzante ritmo narrativo: la regia è impeccabile, energica, bizantina, fa leva su inquadrature calibrate al millimetro e su un’ottima fotografia buia e notturna. Gli attori tutti in parte e di alta qualità. In questo senso “Suburra” è una goduria per gli occhi e avrà quel riscontro del pubblico che cerca incessantemente. Anche se la rappresentazione della violenza è estremizzata e mostrata con un po’ troppo compiacimento (ma è la tendenza del cinema contemporaneo).Il tallone d’Achille di “Suburra” sta, però, nella semplificazione e nella fumettizzazione di alcuni personaggi che fa sì che la pretesa ideologica che lo pervade non riesca ad essere giustificata. Se si vuole realizzare, infatti, una pellicola che abbia una certa visione ideologica del mondo e della società c’è bisogno di molto più approfondimento, di maggiore attenzione per l’accuratezza della storie e delle fonti citate, cercando di svelare aspetti inediti e non seguendo una certa “moda” complottistica che individua sempre gli stessi colpevoli e le stesse situazioni.

Fonte: Sir
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