Il Salvatore del Bernini e la Sindone

La sovrapposizione della storica foto del Cristo della Sindone sull’opera del genio napoletano ha mostrato varie coincidenze

Arte e fede si intrecciano in maniera indissolubile nella produzione di Bernini, il massimo esponente delle cultura figurativa barocca, definito il “gran Michelangelo del suo secolo”. Le sue opere suscitano curiosità, stupore e meraviglia negli spettatori, che si sentono emotivamente trascinati dentro il vortice creativo che ha dato vita a siffatte bellezze, quasi come se le loro mani inesperte potessero sfiorare quelle sublimi del maestro, intento a modellare il marmo, a progettare monumenti o a dipingere tele. Dopo essersi inserito nell’orbita del cardinale Scipione Borghese e di suo zio, Papa Paolo V, e dopo aver servito ben otto Pontefici concentrando, principalmente, la sua attività a Roma, Bernini si recò in età adulta in Francia nel 1665 dove eseguì vari progetti per il Louvre. Tra i lavori di questa fase matura della sua carriera artistica ricordiamo il Busto di Luigi XIV (1665), una scultura che esprime forza e intelligenza, offre l’illusione del movimento e comunica un vibrare che colpisce subito l’occhio di chi osserva, e il Salvator Mundi o Busto di Cristo (1679), la sua ultima opera realizzata nell’Urbe all’età di ottant’anni. Questi e altri capolavori nascondono dietro l’emotività e la capacità illusionistica dello scultore, che sa rendere in maniera eccelsa i valori tonali, i chiari e gli scuri. La mano del Bernini è guidata da una sorta di esaltazione mistica, mentre la sua indole illusionista si presta a conquistare la fiducia del pubblico, stimolandone ingegno e memoria. Il maestro ha sempre cercato di trasfondere nelle sue creazioni artistiche il suo rapporto con la fede, traendo perfino ispirazione da importanti reliquie della nostra tradizione religiosa. All’approssimarsi della fine della sua esistenza terrena, il pittore e scultore sentì il vorace bisogno di un confronto personale con il mistero divino, attraverso l’intensificazione delle sue pratiche devozionali e caritatevoli, ma anche mediante i mezzi della sua professione. Il connubio tra perfezione artistica e urgenza di fede, da parte di un uomo che visse nel cuore della mondanità romana e che, prossimo alla morte, avvertì la necessità impellente di meditare sulla Verità di Cristo, portò alla realizzazione del Salvator Mundi, cioè del marmo che riproduce il volto del Signore, il vero testamento spirituale del noto architetto. Domenico Bernini attesta, nella biografia dedicata al padre Gian Lorenzo intitolata Vita del cavalier Gio Lorenzo Bernino descritta da Domenico Bernino suo figlio (1713), che “prossimo ormai alla morte, et in età decrepita di ottant’anni, volle illustrar sua vita e chiuder l’atto di sua fino a quell’hora tanto ben condotta professione, con rappresentare un’opera che felice è quell’huomo che termina con essa i suoi giorni. Questa fu l’immagine del nostro Salvadore in mezza figura, ma più grande del naturale, colla man destra alquanto sollevata come in atto di benedire. In essa compendiò e ristrinse tutta la sua arte, benché la debolezza del polso non corrispondesse alla gagliarda idea”. La scultura ritrae una mezza figura di Cristo più grande del solito, con la mano destra leggermente sollevata, come se stesse benedicendo. In essa troviamo l’esempio dello stile tardo dell’artista, che si esprime nell’asperità e nella durezza del marmo, lavorato con incredibile competenza. A quest’opera Gian Lorenzo dedicò “tutti gli sforzi della sua cristiana pietà e dell’arte medesima”, come scrisse Filippo Baldinucci nella biografia Vita di Gian Lorenzo Bernini scritta da Filippo Baldinucci (1682). Il genio, tuttavia, ritenne di non essere riuscito a conferire al capolavoro quella vivacità e quella tenerezza tipiche del suo stile, per un impedimento legato alla malattia in età avanzata e per “la debolezza del polso”. Per i suoi contemporanei, invece, rappresentò l’eredità di una carriera straordinariamente ricca e feconda. Il bellissimo volto di Gesù, incorniciato da capelli fluenti e con le spalle avvolte da un manto, rappresenta il Cristo Risorto, l’unico e autentico Re spirituale in grado di infondere pace e di trasmette luce e verità. Nel 1680 l’artista donò l’opera alla sua committente e amica Cristina di Svezia che, nove anni dopo, la consegnò a Papa Innocenzo XI Odescalchi. La nobile famiglia la conservò fino alla fine del settecento, quando scomparve. Dopo varie identificazioni con sculture simili, conservate al Chrysler Museum di Norfolk e nella Cattedrale di Sées in Normandia, nel 2001 il Salvator Mundi è stato ritrovato nei pressi delle Catacombe di San Sebastiano, dentro una nicchia all’ingresso del convento francescano dedicato al martire romano, dove venne portato forse dalla famiglia Albani imparentata con gli Odescalchi. La sua alta qualità lo differenzia dall’esemplare di Sées, anche per il fatto che presenta tratti non strettamente berniniani, ma frutto dell’intervento di apprendisti cresciuti con il maestro. Le ricerche più recenti tendono ad identificarlo come un autografo di Gian Lorenzo il quale, con molta probabilità, modellò i lineamenti del volto del Signore ispirandosi alla Sindone. L’accostamento del Salvatore berniniano al noto Panno di Lino è stato avanzato da Daniela di Sarra, specializzata in foto di opere d’arte. L’esperta ha avuto modo di fotografare il Salvator Mundi al di fuori della teca di vetro che lo protegge, dentro la Basilica di San Sebastiano fuori le Mura a Roma, dopo averlo visto nel 2016 in occasione del Giubileo della Misericordia.

Ha poi sovrapposto l’iconica immagine della Sindone, prodotta da Giuseppe Enrie negli anni Trenta del novecento, con la foto del Busto, scoprendo che vari segni coincidevano in maniera stupefacente: il colpo sullo zigomo, il naso distorto per il colpo di bastone, un sopracciglio più alto dell’altro. Questa perfetta sovrapposizione non lascia dubbi al fatto che, quanto plasmato da Bernini corrisponde esattamente all’uomo della Sindone. Solo lui poteva riuscirci, essendo l’artista che realizzava “i marmi che respirano” e i “ritratti vivi”. Di Sarra ha avviato un’indagine con cui ha verificato che lo scultore aveva visto direttamente il famoso lenzuolo conservato a Torino, verso cui nutriva una certa curiosità in conseguenza del suo essere profondamente devoto e legato alla Chiesa. Nel seicento la Sindone, dopo la Controriforma, divenne di interesse pubblico e fu molto copiata. Mentre si dirigeva a Parigi, negli anni in cui si consumava la crisi tra il Vaticano e il Regno di Francia, Bernini sostò nel 1665 nel capoluogo piemontese come ospite, essendo ormai note la sua fama e la sua missione diplomatica. In quell’occasione ebbe l’onore di assistere all’ostensione del sacro telo. Discorse dell’importanza di questa reliquia cristiana con la regina Cristina di Svezia che, nel 1656, aveva avuto modo anche lei di osservarla da vicino. Il tema della Sindone è presente, in maniera evidente, nella produzione del maestro napoletano, come ha evidenziato anche il professor Marcello Fagiolo, esperto del Barocco romano. Egli doveva avere ben in mente quel volto martoriato, sereno ma regale impresso sul famoso panno e citato anche nei Vangeli, quell’oggetto sacro che sfida l’intelligenza umana e che propone agli spettatori di guardare oltre al razionale, oltre al dato misurabile, un oggetto su cui è impresso un volto che “ci interroga. Ci guarda e ci interroga”, come ha affermato la sindonologa Emanuela Marinelli. Il lenzuolo ricorre, ad esempio, nella statua della Veronica della Basilica Vaticana realizzata da Francesco Mochi, amata da Urbano VIII e commissionata inizialmente a Bernini, che ne curò l’esecuzione. Qui la donna rappresentata sventola un telo su cui è visibile il volto di Gesù. Anche in un disegno sulla Natività del Bernini troviamo il Bambino avvolto in una sindone retta da due angeli. Il Busto di Cristo, tuttavia, non possiede più l’originale basamento su cui poggiava, costituito da due angeli che si velavano le mani con un grande panno e sorreggevano il busto del Salvatore, ancora un richiamo alla Sindone. Bernini realizzò il marmo secondo una precisa logica prospettica, affinché la mano così grande potesse essere vista dal basso. La mano richiama quelle altrettanto grandi della Sindone, intente a benedire, a guarire e a salvare. Secondo di Sarra, Cristo non sta benedicendo, visto che volge il suo sguardo in direzione opposta, ma sta esortando la donna che gli sta correndo incontro a non toccarlo (noli me tangere), perché non è ancora salito al Padre. La bellezza di questo capolavoro sta nel fatto che cattura un attimo, un istante, un momento preciso della vita di Gesù, “il più bello tra i figli dell’uomo”, immortalato come se fosse vivo in carne e ossa. Ciò conferma quello che disse Francesco Petrucci, che ritrovò il marmo, e cioè che Bernini è il più grande ritrattista che riesce a “fissare frazioni di secondo della realtà” rendendo i marmi pieghevoli come cera. Con il Salvatore Gian Lorenzo raggiunse l’apice dell’arte ritrattistica, mostrando che il regno di Gesù non è di questo mondo ma è un regno di luce, speranza, gioia e verità. “Il Beniamino” – come lo stesso scultore definì l’opera – può essere concepito come il suo atto di amore verso Dio e verso la fine della sua vita. Il bello è prenderne visione direttamente, non di lato né con lo sfondo rosso posto dietro il marmo stesso che ne occulta la luminosità. I risultati dell’analisi condotta da di Sarrasono contenuti nel suo volume “Bernini, il Salvatore e la Sindone” (Gangemi Editore, 2023).