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Il dettaglio anatomico contraddistingue le figure venute al mondo prima della rivelazione di Cristo

Il dente del peccato nelle opere di Michelangelo

Bussagli ha ricostruito la storia del quinto incisivo a partire dalle sculture greche e fino alla contemporaneità

Il dente del peccato nelle opere di Michelangelo

A pochi giorni dai festeggiamenti della Santa Pasqua siamo chiamati a riflettere, con più consapevolezza e verità di spirito, sul nostro status di cristiani e sui pesi che gravano sulla nostra coscienza. Tanti pensatori e artisti hanno tentato, nel corso dei secoli, di esprimere il senso stesso del peccato ricorrendo alla parola scritta o alle tecniche figurative. Il filosofo danese Kierkegaard, per esempio, sostiene nell’opera “La malattia mortale” che il peccato è “la distanza più grande possibile e più dolorosa dalla verità” ed è la malattia dello spirito dell’uomo, la sua disperazione. Grandi geni visionari hanno sfruttato le potenzialità dell’immagine per far comprendere che vizi e trasgressioni deturpano la bellezza della vita. Prendiamo il caso di Michelangelo Buonarroti, il Divin Artista che ci ha lasciato un patrimonio artistico tra i più belli al mondo con capolavori quali il David, la Pietà, la Cupola di San Pietro e gli affreschi della Cappella Sistina. Anche lui, tuttavia, ci stupisce con particolari che potrebbero sembrare superflui ma che, in realtà, celano significati precisi. Volgendo lo sguardo ad una meraviglia come il Giudizio Universale, infatti, notiamo un dettaglio degno di considerazione. I diavolacci nelle grotte sono stati dipinti in maniera orribile con un dentone al centro della bocca, un elemento, quest’ultimo, che ritroviamo in altre figure presenti nello stesso affresco come le Sibille delfiche e Giona, e che ricorre perfino nel disegno michelangiolesco della “Furia” conservato agli Uffizi, raffigurante un volto adirato, con la bocca aperta in un grido digrignato e con le sopracciglia ingrugnate. Questo particolare anatomico, apparentemente singolare e stravagante, contraddistingue in realtà i personaggi che, per natura, sono predisposti al peccato. È un concetto spiegato chiaramente dallo storico dell’arte dell’Accademia di Belle Arti di Roma, Marco Bussagli, che nel suo volume “I denti di Michelangelo” (Medusa Edizioni) ha sottolineato come nessuno studioso prima di lui avesse mai fatto caso a questa piccolezza. Ciò che sorprende veramente è che anche il Cristo scolpito nella Pietà Vaticana con la bocca aperta è dotato di quest’incisivo che, a prima vista, potrebbe fungere da segno di contraddizione. Se è vero che è simbolo degli errori umani, allora perché il maestro toscano l’ha inserito nella figura del Figlio di Dio morto tra le braccia della madre, essendo l’agnello sacrificale che ha vinto il peccato? Dobbiamo dire, per prima cosa, che questo dentone in più si chiama “mesiodens” e rappresenta, sul piano odontoiatrico, un’anomalia rispetto agli altri trentadue denti normali. È il quinto incisivo centrale noto anche come “dente del peccato” o “dente bastardo”. In base allo studio fatto da Bussagli, Buonarroti, con una chiara coerenza simbolica, ha usato questa deviazione fisica per indicare non solo le figure violente, bestiali e lussuriose vissute prima della rivelazione di Cristo, ma anche per ribadire la duplice natura umana e divina di quest’ultimo. Rifacendosi al Nuovo Testamento, il ricercatore riprende le parole di San Paolo che dice: “Colui che non aveva conosciuto peccato, Dio lo fece peccato in nostro favore, perché in lui noi potessimo diventare giustizia di Dio” (2Cor 5:21). Addirittura anche Isaia al capitolo 53 dice: “Egli si è caricato delle nostre sofferenze, si è addossato i nostri dolori; e noi lo giudicavamo castigato, percosso da Dio e umiliato. Egli è stato trafitto per le nostre colpe, schiacciato per le nostre iniquità. Il castigo che ci dà salvezza si è abbattuto su di lui; per le sue piaghe noi siamo stati guariti”. In queste parole bibliche troviamo il motivo che ha spinto l’artista rinascimentale a raffigurare Gesù con il “dente del peccato”, diventando un modello sapienziale per coloro i quali sono alla ricerca della verità attraverso l’arte. Il Figlio di Dio ha assunto su di sé i peccati dell’umanità, li ha fatti propri per poterli redimere. Si realizza così quell’unione ipostatica che descrive il modo in cui Cristo si è rivestito dei tratti umani all’atto del concepimento, preservando allo stesso tempo la sua condizione divina. È disceso in terra per vivere come gli uomini ed è morto in croce, pagando il prezzo delle loro colpe. Marco Bussagli ha poi aggiornato la sua ricerca pubblicando il volume “Il male in bocca. La lunga storia di un’iconografia dimenticata” (Medusa Edizioni), in cui riporta esempi a partire dalle sculture del mondo greco fino alla contemporaneità, per dimostrare come questo “dente malvagio e imperfetto” fosse presente già nei secoli passati. Il caso più antico è nella Pietà del marchigiano Lorenzo Salimbeni vissuto tra XIV e XV secolo. Ci sono anche figure terrificanti che sfoggiano questo dente come Le Gorgone, il Marsia Rosso, i ciclopi e i centauri, ma anche i personaggi disegnati da Botticelli, da Romualdo da Candeli e da Giovanni Teutonico, così come il demonio nelle illustrazioni della Divina Commedia e la Cleopatra lussuriosa di casa Buonarroti. Questo dettaglio artistico dovrebbe farci ragionare sulle sofferenze patite da Gesù, per liberare la nostra anima dai pesi che l’affliggono e per accogliere il mistero salvifico della Resurrezione.

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