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Una nuova etica per il futuro dell’uomo

Per una maggiore sensibilità collettiva di fronte ai cambiamenti epocali climatici e sociali. Il punto di vista di Jonas

Una nuova etica per il futuro dell’uomo

Di fronte all’imperversare dei cambiamenti climatici che sembrano scontrarsi con l’incedere del progresso scientifico e tecnologico, dobbiamo sentirci sollecitati ad una maggiore responsabilità collettiva. I torrenti recentemente esondati in Toscana ci obbligano ad una ulteriore radicale presa di coscienza. Nel 1979 Hans Jonas pubblicava ‘Das Prinzip Verantwortung’, edito in Italia con il titolo ‘Il principio responsabilità’ sottotitolato ‘Un’etica per la civiltà tecnologica’, un libro rivoluzionario ancor oggi tanto attuale. Le analisi del filosofo tedesco, di certo lungimiranti, miravano alla elaborazione di un nuovo paradigma etico. La tecnologia avanzata, non più neutrale, necessitava di una rivisitazione che la liberi dagli angusti intrecci dell’antropocentrismo. Di qui l’affermazione del filosofo tedesco: “Nessuna etica del passato doveva tener conto della condizione globale della vita umana e del futuro lontano, anzi della sopravvivenza della specie. Proprio il fatto che essi siano oggi in gioco esige, a dirla in breve, una nuova concezione dei diritti e dei doveri, per la quale né l’etica né la metafisica tradizionali offrono i principi e, men che mai, una dottrina compiuta”. Conseguentemente egli ribadiva la necessità di un superamento dell’etica tradizionale, oltremodo propensa ad orientare verso comportamenti virtuosi.

Se l’etica concerne l’agire, il cambiamento nella natura dell’agire non potrà non richiedere un cambiamento nell’etica. Basti pensare a come il mercato degli anni Settanta abbia ad oggi smantellato ogni orizzonte etico in non pochi contesti di vita, dal mondo del lavoro con le conseguenti delocalizzazioni, restringimento di diritti, sfruttamento del lavoro minorile, a quello dei consumi (Amazon). Con il crollo del bipolarismo ideologico della seconda metà del Novecento, il mondo intero ha assunto una nuova veste sposando un nuovo modus vivendi, quello dei consumi, incurante degli effetti sull’ambiente. Inutile dire come il combinato di incremento demografico e crescita dei consumi abbia prodotto un incredibile squilibrio per il Pianeta, con irreversibili conseguenze sul piano del cambiamento climatico, le risorse idriche, la sopravvivenza di interi ecosistemi.

In questo appare ancor più previdente il pensiero di Hans Jonas, il quale auspicava un passaggio da un’etica antropocentrica a una morale biocentrica, ovvero di una ricerca “non solo del bene umano, bensì del bene delle cose extraumane, estendendo il riconoscimento dei fini in sé al mondo naturale e includendone la cura nel concetto di bene umano”.

La nuova etica, secondo la riflessione di Jonas, deve ripudiare lo “spietato antropocentrismo” e la “strutturale miopia” che caratterizzano l’etica tradizionale decisamente non più in grado di interpretare e di regolamentare l’agire dell’uomo contemporaneo. Si tratta di un concetto significativo, che rimanda alla necessità di non adeguarsi alla semplice osservanza di regole formali, ma di saper prevedere l’influenza che le nostre azioni finiranno per determinare sulle sorti dell’umanità e del pianeta.

Dunque, un’etica non interessata a realizzare un paradiso terrestre, ma tutta impostata sull’imperativo della sopravvivenza. All’esaltazione dell’utopismo egli contrappone l’elogio della cautela, che gli appare il “lato migliore del coraggio”. Il filosofo ci suggerisce che la responsabilità ha come suoi alimenti sia la speranza che la paura. Anzi, è proprio quest’ultima a dover essere valorizzata: Jonas parla di una “euristica della paura”, ossia di una ricerca condotta da tale stato d’animo di fronte ad una apocalisse tecnologica.

Il dovere specifico di questa ricerca è quello di definire nuovi principi etici che ispirino nuovi doveri ecologici, così da preservare il mondo da scelte irresponsabili, salvaguardando l’integrità dell’essere dell’uomo e del suo mondo. L’etica della responsabilità impone a ciascuno di noi il compito di farci carico dell’esistenza delle future generazioni. Il fatto stesso che ciascuno di noi rivendichi la propria libertà ci sprona alla responsabilità.

In questa logica si rende necessario un cambiamento culturale globale che, superando il vetero antropocentrismo, sia capace di porre fine allo sfruttamento eccessivo della natura. 

Già quarant’anni fa, il filosofo tedesco aveva compreso come la tecnica si fosse trasformata in “un illimitato impulso progressivo della specie” e il confine tra polis e la natura fosse stato ormai valicato. Nel riprendere il vocabolario kantiano, Jonas proponeva quattro imperativi categorici dell’agire umano e, ben consapevole dei limiti dello sviluppo, auspicava una trasformazione valoriale estranea alla società capitalistica. Era più che convinto dei pericoli di un uso scriteriato della tecnologia, fin troppo indeterminati per smuovere le coscienze dei singoli.

Di qui il suo invito rivolto alla politica ad andare oltre le necessità contingenti, nella consapevolezza che una democrazia preoccupata degli interessi immediati si rivela inadeguata: “Ciò che non è esistente non possiede nessuna lobby e i non nati sono impotenti. Pertanto, il rendiconto dovuto a questi ultimi non è ancora una realtà politica nell’attuale processo decisionale, e quando essi lo potranno esigere, noi, i colpevoli, non ci saremo più”.

Nasce così il richiamo forte ad una politica capace di visioni a lungo raggio, non arroccata su rendite di potere e di consenso. Di contro ad una politica debole, col principio di responsabilità Jonas non esita ad auspicare una tirannide finalizzata al bene comune, un dispotismo verde in grado di far passare soluzioni difficilmente sopportabili all’interno del sistema capitalistico. Un concetto, questo, che sarà ripreso da Alex Langer, quando propone il suo Stato etico ecologico. Jonas sottolinea che l’imminente distruzione dell’insieme porta alla realizzazione della “vulnerabilità recentemente rivelata” della natura e quindi alla solidarietà umana con essa.

Non si perita di affermare che “se l’esistenza dell’umanità è un imperativo categorico, allora ogni gioco suicida con questa esistenza è categoricamente vietato e devono essere escluse fin dall’inizio iniziative tecniche in cui questa sia anche lontanamente la posta in gioco”.

Nulla di quanto auspicato si è realizzato. Al contrario tutto appare avvilupparsi in un pessimismo dell’azione, in una stasi inerziale delle nostre istituzioni, in una cieca abiura di scelte responsabili e coraggiose realmente capaci di tutelare i nostri territori da disastri annunciati e da un progresso economico privo di fondamenti etici. Un’etica moderna non può non essere “sia di prudenza che di riverenza”. E questo perché l’uomo sia, visto che siamo obbligati a salvare “l’idea dell’uomo” e a restituire alla natura “la dignità che le è dovuta”, preservandola per il nostro e per il suo bene nonostante le insidie del tempo.

 

 

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