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L'intelligenza artificiale e la ricerca di Dio

L’IA riguarda le capacità che alcune tecnologie possiedono di compiere azioni i cui risultati sono migliori rispetto a quelli che gli esseri umani. Ma può dire qualcosa rispetto ai temi della metafisica?

L'intelligenza artificiale e la ricerca di Dio

Cornelio Fabro ha scritto che il problema dell’esistenza di Dio è, in fondo, il problema dei problemi. Esso investe, in misura minore o maggiore, la vita di ogni uomo, di ogni tempo e di ogni cultura e si configura difatti come occasione di fondazione esistenziale della propria esistenza. Sebbene l’esistenza di Dio possa rappresentare per taluni una mera sfida razionale – in tal caso Dio non sarebbe altro che un concetto della ragione – per altri, invece, esso è il principio intorno al quale la vita umana poi si organizza. Per queste persone Dio rappresenta quindi il punto d’arrivo e il punto di partenza della propria esistenza e di ogni altra riflessione che, prendendo le mosse da una prospettiva aperta alla trascendenza (e tale è la prospettiva dei credenti), non può non tener conto del fatto che Dio, in quanto creatore e fondamento del Tutto, si mostra come traccia in ogni sua creazione. Una traccia, però, che non sempre si presenta in un linguaggio comprensibile ed evidente né tantomeno in un segnale intelligibile e razionalmente determinato. Si pensi all’esperienza delle vocazioni, che spesso si realizza in modi che, stando alle testimonianze dei seminaristi che ho avuto il piacere di ascoltare, sono difficili da comprendere se prima non si è compreso il senso dell’esistenza di quella specifica persona all’interno della quale è poi giunta, per vie traverse la chiamata del Signore. Questo genere di esperienze sono significative nel senso che esse si dispiegano nell’ambito di un’esistenza in un modo non estrinseco (come se una chiamata effettivamente giungesse all’orecchio del futuro presbitero o del credente) ma intrinseco, nel senso che è proprio la vita del soggetto ad assumere una forma che poi, reinterpretata, si configura difatti come chiamata. L’esistenza di Dio è quindi una tesi o, se si vuole, una conclusione alla quale effettivamente anche un’intelligenza artificiale può giungere? «Una lavastoviglie», ha scritto Luciano Floridi, «non pulisce i piatti come facciamo noi, ma alla fine del processo i suoi piatti puliti sono indistinguibili dai nostri, anzi possono essere anche più puliti (efficacia) utilizzando meno risorse (efficienza)» (L. Florini, Etica dell’intelligenza artificiale. Sviluppi, opportunità, sfide, Raffaello Cortina, Milano, 2022, p. 52). L’IA riguarda le capacità che alcune tecnologie possiedono  di compiere specifiche azioni i cui risultati sono migliori (in termini di efficienza ed efficacia) rispetto a quelli che gli esseri umani, da soli, potrebbero conseguire. Una macchina potrebbe, quindi, presentare la tesi dell’esistenza di Dio come veritiera e potrebbe quindi portare a supporto di questa tesi una serie di argomentazioni che, nel linguaggio di Tommaso d’Aquino, potrebbero sintetizzarsi nell’espressione credere Deum (credere, cioè, che Dio esiste e che possiede una serie di specifici attributi per motivazioni specifiche). L’esistenza di Dio potrebbe quindi essere presentata come una tesi assai probabile e con un elevato margine di certezza. Tutto ciò, però, non implica affatto la credibilità della tesi in questione. Infatti, la credibilità della tesi dell’esistenza di Dio non è una caratteristica immediatamente correlata alla sua maggiore probabilità o alla sua certezza, ma è legata invece al convincimento che il fedele realizza circa la possibilità di affidarsi totalmente alla Parola di Dio che diviene, quindi, significativa per tutta la sua esistenza. In altri termini: l’esistenza di Dio è, per il cristiano, una forma di sapere vivo, nel senso che si tratta effettivamente di una speciale forma di relazione. Difatti la persona umana, sulla base della sua ontologia, sempre a contatto con la caducità, il dolore, la contingenza la ricerca di senso e di significati, si fa disponibile, con logiche non sempre totalmente lineari (le logiche della vita, per l’appunto) ad accogliere e intravedere, nella fitta trama dell’esistenza, la presenza personale di Dio che lo interpella. A tal proposito ancora Luciano Floridi evidenzia che, ad oggi, l’IA può riuscire a «colonizzare lo spazio sterminato dei problemi e dei compiti» specifici che i progettisti si propongono di risolvere evitando «comprensione, consapevolezza, acume, sensibilità, preoccupazioni, sensazioni, intuizioni, semantica, esperienza, bio-incorporazione, significato, persino saggezza e ogni altro ingrediente che contribuisca a creare l’intelligenza umana» (ivi, p. 52). Il compito di trovare il senso dell’esistenza nell’invisibilità di una relazione verticale è però lontano da un’entità incapace, ad oggi, di trovare nella mancanza, nell’assenza e nella caducità le tracce del fondamento ultimativo della realtà. Quando Andrew Martin, il protagonista de L’uomo bicentenario (1999) si sottopone all’ultimo intervento prima di diventare completamente umano chiede a Rupert Burns quanto tempo impiegherà il sangue a degradare il suo corpo portandolo alla morte, quest’ultimo risponde che è proprio questo ad essere imprevedibile per ogni essere umano. Infine aggiunge: «benvenuto nella condizione umana». In questo speciale benvenuto è magnificamente espresso il segreto dell’essenza dell’uomo che è capace di trovare la ricchezza nei meandri delle manchevolezze delle quali la vita umana è costellata e, a partire da tutto ciò, l’interrogazione radicale su Dio acquista la sua reale preminenza esistenziale, prima ancora che metafisica.

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