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Quando il pallone unisce lingue diverse

Scendono in campo insieme calciatori ebrei, musulmani, cristiani e drusi.

Quando il pallone unisce lingue diverse

Non ha certo suggerito sentimenti di esultanza la cronaca del recente calcio mercato dove fiumi di denaro hanno accompagnato gli spostamenti di giocatori da una squadra all’altra mentre un’altra cronaca proponeva le immagini delle tende del terremoto e di quelle dei migranti alle frontiere del Nord.
La coscienza, almeno quella che non si arrende alla mediocrità e al nulla, ha alzato e alzerà ancora la sua voce per denunciare con parole ferme ed efficaci, una delle più tristi contraddizioni del nostro tempo.
Ma proprio in questi stessi giorni verso le ultime pagine di un giornale che sono solitamente dedicate allo sport, ci si imbatte nella notizia dal titolo “Dove la religione non fa differenza. Ebrei e arabi a scuola di calcio”.
L’avventura, piccola di dimensione ma non povera di significato, è iniziata attorno al 2010 con il Roma Club Gerusalemme.
“Ci sono solo squadre miste, con ebrei, arabi, drusi, cristiani di qualsiasi nazionalità. Niente parolacce perché la violenza verbale porta a quella fisica” afferma Samuele Giannetti segretario e vice presidente del sodalizio sportivo che raccoglie 150 ragazzi tra i 5 e i 15 anni.
Tra poco ci saranno anche squadrette femminili.
Potrebbe far sorridere questa notizia improvvisamente affiorata tra molte altre che raccontano storie di scontri violenti che vengono fatti risalire alle religioni.
Occorre verificare questi racconti perché le guerre mettono sempre maschere ai volti di coloro che le provocano.
Un pallone può strappare queste maschere nel suo correre sulle linee del dialogo, della reciprocità, della solidarietà senza per questo rinunciare ad essere calciato con abilità e con il rispetto delle regole sportive.
Ecco il messaggio di un “piccolo mondo” che accetta la sfida del “grande mondo” con il desiderio di proporre un segno di speranza senza tuttavia snobbare classifiche, stadi, tifoserie, coppe.
In questa avventura anche gli adulti, per così dire, stanno al gioco.
“I genitori – dice infatti Giannetti – vedono che i loro bambini si divertono: non conta se il compagno è ebreo o arabo”.
Non conta o conta molto?
La risposta è determinante per dare alla lingua di questo pallone un supplemento di bellezza e di responsabilità.
In un bambino ebreo che, sotto gli occhi degli allenatori e dei genitori, gioca in squadra con bambini cristiani, musulmani, drusi si esprime una scelta di straordinario valore educativo e come tale apre a orizzonti di speranza.
Al punto che un goal è sì un pallone che entra in rete ma è anche un pallone che va oltre la rete.
Non solo. Una partita tra squadre con bambini ebrei, musulmani, cristiani, drusi non chiede ad alcuno di loro di rinunciare alla propria religione e diventa per ognuno una gara nello stimarsi a vicenda.
Conta sì essere ebreo, arabo, cristiano, druso ma questo “contare” non è un verbo che divide ma un verbo che unisce coloro che si misurano sul campo del gioco, sul campo della vita.
Anche per questo un pallone che entra in rete va oltre la rete.
E’ un’immagine che lascia pensare alla rimozione di reti – culturali, politiche e metalliche – che imprigionano e tradiscono i sogni dei bambini in cui spesso si racchiudono i loro diritti.
Di fronte a reti alzate da adulti, che formano gabbie di paura e di egoismo, i piccoli terzini, mediani, punte, portieri di diverse religioni corrono da una porta all’altra.
La cronaca si ferma, lascia il passo a bambini e bambine che su un campo di calcio riescono a raccontare una storia nuova con la lingua del pallone.

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