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Per far riprendere il ceto medio bisogna ripartire dalla famiglia

Le analisi e le suggestioni di Arnaldo Bagnasco, Giuseppe De Rita e Ilvo Diamanti suggeriscono un profondo cambiamento di scenario sociale. Le classi intermedie di reddito esistono ancora e rappresentano una quota molto significativa della popolazione. Ma se non esiste più il ceto medio come perno del sistema, come compatto riferimento del futuro sviluppo; e se è vero che in passato la sua espansione ha avuto a che fare – tra mille contraddizioni – con un ingente e diffuso processo di promozione sociale e addirittura con la percezione della piena cittadinanza, ci si chiede intorno a che cosa è possibile oggi organizzare le politiche inclusive di cui c'è urgente bisogno.

Per far riprendere il ceto medio bisogna ripartire dalla famiglia

La frequenza con cui negli ultimi anni il tema della crisi del ceto medio compare nelle analisi giornalistiche e in quelle degli studiosi è inversamente proporzionale all’attenzione concreta che gli è stata riservata dalla politica. Basta un accenno a come è stato ed è distribuito il carico fiscale per evocare uno scenario fin troppo noto. Adesso sembra che il governo intenda fare qualcosa. Staremo a vedere. Intanto però il ceto medio naviga in cattive acque e rischia di sprofondare. La crisi economica lo spinge irresistibilmente verso la “proletarizzazione” o la “precarizzazione” – i due termini non sono sinonimi, ma convergono – e se la complessità dei processi sociali induce a una legittima diffidenza di fronte alle previsioni catastrofiste, certo è che in quest’ultimo periodo le analisi si sono fatte più serrate e severe, anche da parte di studiosi che al ceto medio hanno sempre attribuito un ruolo decisivo nella società italiana (e non solo).

Innanzitutto un chiarimento su cosa si intende per ceto medio, perché il termine – ovviamente soggetto a interpretazioni estremamente diverse nei differenti contesti globali – ha una sua complessità che non si può ridurre a una mera questione di redditi e di consumi.

“Il fatto è – ha osservato Arnaldo Bagnasco, professore emerito di sociologia a Torino e accademico dei Lincei – che il ceto medio, per così dire, non si dà in natura, conta molto la sua costruzione culturale e politica. Ha radici in categorie professionali, che però cambiano nel tempo e sono piuttosto eterogenee”. Bagnasco sono anni che studia sistematicamente questi temi e ha appena pubblicato per Il Mulino un saggio dal titolo “La questione del ceto medio. Un racconto del cambiamento sociale”. Proprio parlando di questo suo ultimo lavoro, il sociologo ha ricordato come in Italia “essere ceto medio significava posizioni medie e cresciute nella scala dei redditi e dei consumi, oltre ad aumentato grado di istruzione, relativa sicurezza nelle prospettive di lavoro, protezione dai rischi della vita”. E questa situazione “era percepita come una condizione di acquisita piena cittadinanza sociale: la maggioranza arriverà a dichiararsi ceto medio nei sondaggi”, a prescindere dalla specifica attività lavorativa dipendente o autonoma, pubblica o privata. Giuseppe De Rita, il presidente del Censis, con uno dei suoi fortunati neologismi arrivò a parlare di “cetomedizzazione” della società italiana. Dunque un mix di condizioni reali e di condizioni percepite. E oggi?

“La maggior parte degli italiani – ha rilevato Ilvo Diamanti sulla base di un recentissimo sondaggio Demos-Coop – ritiene di appartenere a una classe sociale bassa o medio-bassa”. In particolare, oltre ovviamente ai disoccupati, questa percezione “in discesa” riguarda operai, pensionati e casalinghe. Una tendenza che si osserva da alcuni anni, ma che ora “ha raggiunto una misura superiore al passato”. E ciò è tanto più vero “perché, parallelamente, il peso di coloro che si collocano nel ‘ceto medio’ non è mai stato così limitato: 39%. Nel 2011 era il 50%”. E nel 2006, dieci anni fa, erano 6 su 10. Se si tiene conto che ai livelli più alti i redditi sono invece proporzionalmente cresciuti, nonostante la crisi, il quadro che si ha davanti è quello di una profonda divaricazione sociale, cioè il processo inverso a quello che aveva portato all’exploit del ceto medio

e lo aveva fatto diventare, per dirla ancora con Bagnasco, “il perno dell’equilibrio sociale”. Più che domandarsi se il ceto medio sia morto o no, allora, bisogna prendere atto che non è più possibile pensarlo in quei termini. “Non si può restare sulla difesa e/o condanna a oltranza del ceto medio”, ha scritto nei giorni scorsi De Rita. “Non si è ancora colto il fatto – ha aggiunto il presidente del Censis – che il processo di cetomedizzazione iniziato negli anni ’70 ha esaurito la sua forza di spinta: tenerlo come compatto riferimento del futuro sviluppo è cosa inutile e controproducente”, mentre “occorre cogliere i germi della sua futura evoluzione”.
Va da sé che le classi intermedie di reddito esistono ancora e rappresentano una quota molto significativa della popolazione. Ma se non esiste più il ceto medio come perno del sistema, come compatto riferimento del futuro sviluppo; e se è vero che in passato la sua espansione ha avuto a che fare – tra mille contraddizioni – con un ingente e diffuso processo di promozione sociale e addirittura con la percezione della piena cittadinanza, intorno a che cosa è possibile oggi organizzare le politiche inclusive di cui c’è urgente bisogno se non vogliamo rassegnarci a una società in cui i ricchi diventano sempre più ricchi e i poveri sempre più poveri? Sondaggi, ricerche, rapporti convergono nell’indicare nella famiglia – pur così bistrattata e tartassata – uno dei pochi punti di tenuta del sistema, spesso il principale. E’ giunto il momento di scommettere davvero su di essa.

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