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Lorella Filice: il mio racconto dal fronte Covid in Piemonte

Infermiera di Pedace, volontaria per 28 giorni durante l’emergenza sanitaria

Lorella Filice: il mio racconto dal fronte Covid in Piemonte

Lorella Filice è un’infermiera che abita a Pedace (frazione di Casali del Manco). Lei è stata tra i migliaia di volontari che hanno aiutato i sistemi sanitari del Nord Italia fortemente colpiti dal contagio del nuovo coronavirus. A Parola di Vita racconta la sua esperienza maturata in 28 giorni di servizio in Piemonte. 

Ci racconta com’è iniziata questa esperienza?

Durante la pandemia era uscito un bando che domandava volontari per aderire alla task force di infermieri contro il Covid. Ho elaborato bene la situazione. Questa decisione, comunque, parte dal fatto che devi sentirtela di prenderla realmente. È proprio un qualcosa che ti viene da dentro. Sai a cosa vai incontro, sai le persone che lasci. A questo bando aderimmo in 9000. Ne chiedevano solo 500 di infermieri. 

Lei dove lavora?

Al reparto di medicina dell’ospedale di Cetraro. Per tre anni ho lavorato in rianimazione. 

Dove ha contribuito alla lotta al Covid?

Sono stata per 28 giorni (nel mese di maggio) inviata in Piemonte, all’Asl di Alessandria. Lì mi hanno chiesto di fare tamponi. Ho lavorato solo ed esclusivamente con persone positive. Si tenga conto che erano tutte persone in quarantena che avevano bisogno di due tamponi negativi per riprendere ad uscire di casa. Purtroppo non tutti i tamponi venivano processati nell’immediato e le persone erano anche sfinite per l’attesa. Essere positivi vuol dire stare a casa fino anche a 60, 70 giorni. Non è una cosa semplice. 

Com’era organizzato il lavoro?

L’Asl aveva richiesto di questo supporto infermieristico per i tamponi. Lì sono stata nella tenda del drive, ovvero dove eseguivamo i tamponi alle persone direttamente nell’auto ogni qual volta passavano nell’ospedale. Ho eseguito test anche agli operatori sanitari. In alcuni casi andavo anche a domicilio.

Come ha vissuto quelle giornate?

Ho pensato subito alla Calabria. Nel senso che siamo stati fortunati. Non siamo stati coinvolti così tanti da poter far parlare di una vera emergenza. Molti medici del Piemonte mi hanno rafforzato questo pensiero. Noi in realtà siamo stati sostanzialmente free come zona. Ancora si conosce poco di questo virus. I medici abbracciano delle teorie, ma non sanno come sconfiggerlo o se tornerà nel periodo autunnale. 

Ha avuto paura a stare a quasi stretto contatto con persone positive al virus?

La paura di infettarsi c’è stata sempre. Quando feci il tampone per poter rientrare in Calabria, ho evitato tutti i contatti possibili. Il virus lo sentivi nell’aria. Anche ora. La situazione non è affatto felice. In Piemonte ho “tamponato” di tutto, anche neonati appena nati a novembre. Il virus, tra virgolette, ci mette in una situazione democratica: lo può prendere chiunque. Io sono andata consapevole di questo rischio. 

Oltre alla consapevolezza, qual è stata quel qualcosa che le ha fatto prendere quella scelta?

La molla è stato il pensare che quando c’è bisogno di aiuto occorre mettersi a disposizione. Indipendentemente dalla regione e da tutto. È un qualcosa che devi fare, se te lo senti. Tutti i miei colleghi ci hanno ringraziato perché grazie a noi volontari hanno potuto avere qualche giorno libero. Loro non si sono mai fermati da quando è scoppiata la pandemia. Non c’erano più turni. Si doveva lavorare e basta. Con noi sono riusciti ad avere chi una mezza giornata, chi un giorno intero di pausa. Non ce la facevano più. La situazione era peggiore di quella che si vedeva in televisione. Non solo per i medici. Se una persona risultava positiva, anche se asintomatica, doveva stare chiusa in casa potendo uscire solo per farsi il tampone. Noi ci siamo presi di tutto. Dalle incazzature, disperazione.

Cosa si percepiva dai pazienti?

Non era facile per loro essere confinati in casa in attesa dell’esito dei vari tamponi. Alcuni aspettavano perché c’è stato un problema legato ai reagenti insufficienti e questo complicava di più le cose. Per essere dimessi o uscire di casa servivano quei due benedetti tamponi e in alcuni casi avevano esiti contrapposti e lì davvero era un casino. 

Filice

Cosa le lascia questa esperienza?

Sicuramente è un’esperienza di vita. Non è bella perché ti rendi conto della fragilità umana. Tamponavano centinaia di persone al giorno. Un giorno ne facemmo 300 con tanti esiti positivi. Ti rendi conto della vastità di quest’emergenza. Sono contenta di aver contribuito nel mio piccolo. Voglio qui ringraziare la Protezione civile di Acqui Terme. Da loro ho avuto ogni tipo di supporto. Si sono preoccupati molto delle varie situazioni che si venivano a creare. Per esempio, per evitare che i cani dei positivi andassero al canile si sono adoperati per i loro bisogni. Come si sono preoccupati di andare a prendere i rifiuti dei positivi, ma anche di fargli la spesa. Cioè di tutto. Non mi hanno mai fatta sentire da sola. 

Ora che l’emergenza sembra rientrare quale consigli vuole dare?

La mascherina va portata, perché ci aiuta. Nessuno sa come evolverà la situazione. Per una qualsiasi cosa uno rischia di infettarsi. Inoltre, non sappiamo le complicanze che produce il virus. Essere negativi al test non vuol dire aver completamente superato la situazione. Siamo di fronte ad un virus nuovo e ne sappiamo poco in merito. 

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