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Industrie troppo piccole

Le dimensioni contano, eccome, per aggredire il mercato globale.

Industrie troppo piccole

Matteo Renzi la canta spesso agli imprenditori italiani: si può dare di più. Lo fa memore della sua squadra del cuore, la Fiorentina: bel gioco, applausi, ma poi alla fine quinto o sesto posto. Scudetti, rarissimi. Un po’ come l’Italia economica: tante eccellenze, poche medaglie d’oro.
Nel vino siamo forse i migliori, ma i più grandi gruppi parlano francese, californiano, australiano. La qualità del design e dei mobili italiani non ha pari, ma i fatturati più alti li fa un colosso svedese. E che dire della moda tricolore? Tanto di cappello, anche se poi le holding del lusso sono francesi, e quelle che vendono più vestiti sono spagnole o svedesi. E se l’auto più bella del mondo si fa a Maranello, Modena, i fatturati più alti si conseguono invece in Germania, Giappone, Stati Uniti.
Ma c’è una cosa che risulta particolarmente indigesta: l’agroalimentare dello Stivale non ha paragoni nel mondo. Non è sciovinismo, ma come si mangia in Italia non ce n’è per nessuno. Eppure abbiamo sì e no un paio di gruppi industriali di primario livello internazionale (Ferrero, Barilla e poco altro), mentre le grandi multinazionali hanno sede in Svizzera, Francia, Germania, Stati Uniti, Gran Bretagna… E le dimensioni contano, eccome se contano.
Anzitutto, chi è più grande riesce di solito a fare più profitti e ad attirare più capitali. Insomma guadagna bene e si finanzia meglio nei piani di sviluppo. Ha poi risorse necessarie per essere il pesce grande che si mangia quelli piccoli. Come sanno perfettamente quasi tutte le aziende del lattiero-caseario nostrane, del beverage o dell’olio d’oliva.
Ma tanti altri gioielli tricolori sono finiti in mani straniere (piastrelle, poltrone, acciaio, motociclette…). Non è un problema in sé, solo che il vero problema rimane quello dimensionale: come fai a diventare grande, a conquistare mercati, ad imporre il made in Italy se poi alla prima offerta succulenta si vende tutto, o si finisce appunto prede invece di cacciatori? Si finisce insomma quinti o sesti, mentre gli altri vincono scudetti e coppe?
Un tempo si poteva lamentare la nostra impossibilità di entrare in mercati in cui la Coca Cola o Mac Donald’s atterravano su un tappeto rosso. Ma oggi non è più così, conta soprattutto la mentalità e la capacità organizzativa, altrimenti non avremmo visto marchi svedesi o iberici diventare in un decennio i numeri uno nei loro ambiti. E la controprova la dà un settore che di organizzazione e mentalità espansiva è paradigmatico: la grande distribuzione organizzata. In Italia è frammentata in un arlecchino di piccole percentuali di mercato, il numero uno supera di poco il 10%. Figurarsi se si hanno le spalle grosse per affrontare gli enormi mercati americani, cinesi, indiani.
La concorrenza invece lo fa. E indovinate che vini e formaggi vendono, nelle catene distributive francesi sparse in giro per il mondo?

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