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Giornata di studi gli armeni

All'Unical si ricorda la storia degli armeni e il triste genocidio del loro popolo

Giornata di studi gli armeni

Marco Rovinello, docente di Storia Contemporanea presso il Dipartimento di Scienze Politiche e Sociali dell’Unical, spiega l'importanza della riflessione intorno alla vita, la fede e le vicende del popolo armeno. 

L’Università della Calabria e il Dipartimento di Scienze Politiche e Sociali hanno organizzato per il prossimo 8 maggio, in collaborazione con il MEIC e l’Ambasciata armena in Italia, una giornata di studi dal titolo Gli Armeni. Storia, Cultura, Testimonianze. Ci può presentare l'iniziativa e spiegarne le ragioni?

Sì, certo. L’iniziativa nasce dalla volontà dell’Università e del DISPeS di rispondere al desiderio espresso dal MEIC di approfondire un tema importante della storia e della contemporaneità come quello relativo agli Armeni, e di farlo con gli strumenti propri del mondo scientifico e accademico. È per questo che si è scelto di organizzare un momento di riflessione e di studio su alcuni degli aspetti e dei momenti più importanti del passato e del presente del popolo armeno e delle aree più interessate dalle sue vicende. E, considerata la complessità delle questioni, si è deciso di adottare una prospettiva pluridisciplinare e di invitare a relazionare alcuni dei massimi esperti italiani del tema, facendo sì che questa giornata di studi diventasse anche una preziosa occasione di incontro e confronto fra la comunità scientifica e studentesca dell’Unical e studiosi noti come il prof. Flores dell’Università di Siena, che parlerà del genocidio; i proff. Ferrari e Ruffilli dell’Università di Venezia, che parleranno di Nagorno-Karabakh e dell’esodo degli Armeni dell’Artsakh; il prof. Strano, che analizzerà la presenza armena nell’Italia meridionale. Il rigore scientifico, che vuole essere il tratto distintivo dell’iniziativa, avrà poi un elemento complementare e altrettanto rilevante nella parte pomeridiana della giornata, dedicata alle testimonianze di Boris Ghazarian e di Tehmina Arshakyan, dell’Associazione Armeni di Calabria. Insomma, un esempio credo virtuoso di come l’università possa proficuamente aprirsi alla domanda di cultura del territorio e moltiplicare le occasioni di apprendimento per i suoi studenti, affrontando anche temi delicati in maniera il più possibile interdisciplinare, sempre rigorosamente scientifica e, spero, interessante e coinvolgente anche per i più giovani.

Professore, quando si parla di Armenia il pensiero corre subito  a quello che definiamo il loro genocidio. Ci aiuta a comprenderne la nascita e le conseguenze di questa terribile pagina di storia?

La risposta a questa domanda richiederebbe le competenze specialistiche del prof. Flores, oltre a tempo e spazio che una breve intervista non può ovviamente concedere. Per almeno inquadrare la questione del genocidio armeno si deve però senz’altro sottolinearne alcuni aspetti che spesso sfuggono nelle vulgate che circolano in gran numero nel discorso pubblico e, ahimè, non di rado anche nelle ricostruzioni ipersemplicistiche e storiograficamente poco aggiornate proposte da buona parte della manualistica scolastica. Intanto, il genocidio armeno affonda le sue radici ben prima della Grande guerra, in concomitanza della quale si tende invece a parlarne. Tralasciando i pogrom anti-armeni avvenuti in altri paesi, per esempio nell’Impero russo durante la Guerra russo-giapponese del 1905, sin dal tardo Ottocento il governo dell’Impero ottomano avvia infatti politiche riconducibili a logiche di “chirurgia demografica”, che hanno lo scopo precipuo di turchizzare l’Anatolia a scapito delle popolazioni non turche presenti sul territorio. Si tratta di un piano che, nell’idea del sultano, deve anche servire a risolvere il problema di ricollocare i sudditi di nazionalità turca espulsi dalle aree d’Europa perdute dall’Impero a seguito della Guerra russo-turca del 1877-1878 e delle indipendenze conquistate da diversi stati balcanici. Ma è non di meno un atteggiamento coerente con la progressiva tendenza delle classi dirigenti ottomane a perseguire un modello di Stato-nazione d’impronta occidentale, che lascia sempre meno spazio a quel pluralismo etnolinguistico e religioso a lungo caratteristica fondamentale e punto di forza degli assetti socio-economici e politici dell’Impero. E tanto più questa linea si rafforza con la rivoluzione dei Giovani turchi fra il 1908 e il 1913, altro momento in cui gli Armeni sono oggetto di violenze come ad Adana nel 1909. Il primo conflitto mondiale non fa dunque che portare all’estremo questa tensione verso la costruzione e l’affermazione della nazione turca a discapito degli altri popoli da secoli parte del mondo ottomano. Del resto, questo nazionalismo intriso di sospetto e intolleranza nei confronti delle minoranze e dei cittadini di nazionalità nemica si registra anche in tanti altri paesi belligeranti, e si traduce in forme di concentramento forzato, espropriazioni, denaturalizzazioni e altre forme di repressione e discriminazione. 

Perchè, Professore, di questo massacro se ne ha memoria, fino a parlare di "genocidio dell'Armenia" e di altri massacri non più?

Alcuni altri massacri, peraltro non solo novecenteschi, sono ormai pagine di storia ampiamente conosciti, dallo sterminio nazista e dall'Holodomor in Ucraina, fino alle violenze del regime maoista e a quelle connesse all'imperialismo. E, a dirla tutta, il genocidio armeno è, per assurdo, più misconosciuto di altri. Eppure quanto accade agli Armeni durante la Grande guerra non ha eguali nell'Europa di quegli anni, con i massicci arresti dell’élite armena a partire dall’aprile del 1915 e poi la deportazione e l’uccisione di almeno un milione di persone: un massacro che ha prodotto la scomparsa di circa il 90% della comunità armena in Anatolia e che costituisce un tassello importante di quella che è stata chiamata “L’epoca del genocidio”. Un’opera sistematica di distruzione di quel gruppo religioso e culturale la cui storia è peraltro a sua volta, da decenni ormai, oggetto di una battaglia di memorie tutt’ora in corso e dalle pesanti conseguenze non solo sulle vicende nazionali di diversi paesi dell’area ma anche sulle relazioni internazionali (si pensi solo al suo peso nella mancata adesione della Turchia all’Unione Europea).

Qual è il ruolo del Nagorno-Karabakh nella storia di questo Paese?

Anche qui, la questione è tutt’altro che semplice. Con riferimento all’età contemporanea, da non specialista credo si possa comunque affermare senza tema di smentita che la vicenda del Nagorno-Karabakh rappresenta, se non altro, un esempio paradigmatico di alcuni fenomeni di grande rilievo che hanno segnato il Novecento. È infatti la rivoluzione bolscevica dell’ottobre 1917 e la sua affermazione attraverso le guerre civili degli anni successivi, a porre in termini in parte nuovi il problema dell’integrazione dell’Armenia e dell’Azerbaigian nella nascente Unione Sovietica, e quindi della gestione dei rispettivi sentimenti nazionali e confini territoriali. Benché abitata in larghissima parte da armeni, la piccola regione interna del Nagorno-Karabakh viene infine posta sotto il controllo della Repubblica Socialista Sovietica Azera, forse come strumento per meglio gestire le tensioni nella complicata regione del Caucaso, forse per mantenere buoni rapporti con la repubblica turca nata dopo la Grande guerra. Tuttavia, essa non cessa di costituire oggetto delle rivendicazioni armene, dimostrando in maniera evidente quanto sentimenti e movimenti nazionalisti costituiscano un problema costante e centrale nella costruzione e nella gestione dell’identità sovranazionale e dello Stato sovietici. E non è un caso che proprio la mai sopita questione del Nagorno-Karabakh riemerga con forza non appena si va profilando il collasso dell’URSS a partire dalla seconda metà degli anni Ottanta. 

Professore, si può parlare senza tema di smentite di una forte natura verso l'autonomia insita nel popolo armeno?

Probabilmente non piu di quanto non si possa fare con riferimento a diversi altri popoli, confluiti nell'Unione sovietica (si pensi solo agli ucraini). Tuttavia, nella seconda metà degli anni Ottanta quello armeno è fra i movimenti di matrice nazionalista che rivendicano maggiore autonomia per le repubbliche sovietiche periferiche e contestano a Mosca il suo sempre più asfissiante accentramento russificante. E, da subito, questa richiesta si fonde con quella di ottenere la regione da tempo ambita, portando nel 1987 a scontri interetnici fra azeri e armeni. Già a inizio 1988 queste tensioni si trasformano in quella che si usa chiamare la Prima guerra del Nagorno-Karabach: un conflitto segnato da violenti pogrom come quello anti-armeno di Sumgait, in Azerbaigian, e da scontri armati che provocano l’esodo di circa 200.000 armeni e oltre 800.000 azeri. Il che aiuta a comprendere meglio alcune delle dinamiche e delle tensioni alla base della dissoluzione dell’URSS, mostrandone una faccia e delle conseguenze spesso poco note a chi guarda al crollo blocco sovietico e dell’URSS da Occidente, con in mente piuttosto le festose immagini del crollo del Muro di Berlino o quelle più solenni e dimesse del “Discorso di Natale” di Gorbačëv. 

La Calabria ospitò gli Armeni. Quando? Restano tracce?

Su questo davvero non posso che rimandare ai lavori e all’intervento del prof. Strano, che peraltro affronta la questione a partire da epoche remote e consente dunque di ragionare sul lungo periodo di una presenza che senza dubbio è risalente. Quello che posso dire io, che in passato mi sono occupato di storia delle migrazioni nel Mezzogiorno ottocentesco, è che storie come quella della presenza armena in Calabria possono probabilmente dirci tanto su processi e meccanismi migratori di epoche per troppo tempo ritenute da certa storiografia come caratterizzate da una sorta di paradigma omeostatico. E forse ancor di più possono insegnarci sui fattori e sulle dinamiche che intervengono nei processi di costruzione identitaria collettiva, di integrazione o, al contrario, di alterizzazione, che segnano la presenza di gruppi di persone alloglotte e di diversa religione/confessione sul territorio della penisola italiana. Chi resta, è percepito e si percepisce straniero, e perché? Chi riesce invece a integrarsi e stempera la sua originaria alterità, magari mediante matrimoni esogamici e interconfessionali oppure attraverso la costruzione di reti di relazioni di carattere prevalentemente professionale? Quali transfer e forme di ibridazione si registrano fra le diverse comunità etno-nazionali e linguistico-religiose residenti in quelle stesse zone, ivi comprese quelle indigene? Attraverso quali canali queste culture comunicano e come esse si appropriano e risignificano i patrimoni culturali e i lasciti altrui? In che modo il carattere strutturalmente transnazionale dei gruppi diasporici s’interseca con questi processi e influisce sulla capacità degli altri di inserirsi a loro volta in processi/dinamiche inter e transnazioali? Come tutto ciò cambia nel tempo, in funzione di fattori, solo per fare qualche esempio, di carattere politico-istituzionale (regimi al potere, statualità, relazioni internazionali, conflitti, etc.), socio-economico (periodi di prosperità, crisi, etc.), tecnologico (disponibilità di mezzi di trasporto e comunicazione migliori, etc.), culturale (livello di alfabetizzazione, diffusione della poliglossia, etc.) o normativo (legislazioni confessionali, discriminatorie, etc.). Ecco, ricostruire la presenza armena in Calabria nel passato e guardare a quella di oggi significa confrontarsi con tutte queste grandi questioni. E forse, più in generale, a far riflettere su cosa significhino anche oggi termini spesso semplicisticamente utilizzati nel discorso pubblico come “migrare”, “ospitare”, “straniero” e così via.

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