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Un nuovo tipo di platonismo: l'immortalità digitale

L’immortalità digitale si potrebbe definire come una forma di immortalità guadagnata per via tecnologica, che consente alla mente umana, considerata come un sistema complesso di informazioni in reciproca interazione, di poter essere trasferita su di un supporto digitale considerato equivalente al corpo umano.  

Un nuovo tipo di platonismo: l'immortalità digitale

Il desiderio di immortalità appartiene alla natura umana. Esso cioè non dipende affatto dalle culture o dalle epoche diverse ma è un’aspirazione che trasversalmente riguarda ogni uomo. Questo desiderio ha poi assunto, nei vari tempi e spazi della storia dell’umanità, diverse forme. Certamente il desiderio di immortalità ha due matrici concettuali generalissime che si configurano rispettivamente o come desiderio di sopravvivere per sempre o come desiderio di non morire mai. Qualcuno potrebbe pensare che si tratti soltanto di un gioco di parole, eppure non è così e un esempio storico servirà a far comprendere al lettore meno esperto la sottile differenza che intercorre tra le due matrici. In una prospettiva come quella platonica ad essere dominante è la seconda forma del desiderio, quella di non morire mai. Infatti l’anima – platonicamente considerata come la ‘parte’ divina dell’uomo –al momento della morte semplicemente si sgancia dalla prigione del corpo per continuare la sua esistenza finalmente imperturbata. La morte, nella prospettiva platonica, è semplicemente un cambiamento di condizione per l’anima umana: essa passa da uno stato di prigionia ad uno stato di libertà metafisica. Per la prospettiva cristiana, invece, la morte non è soltanto l’occasione di un cambiamento di condizione dell’animo umano, ma è un passaggio trasformativo radicale. La morte è l’effetto assoluto del peccato e s’introduce nella vita del cristiano come momento inesorabile e ineluttabile che pone fine ad un certo tipo di vita e dà inizio ad un’altra. Se per Platone l’anima continua a vivere perché semplicemente non muore mai, per il cristiano l’anima continua a vivere soltanto perché Dio, dopo l’evento radicale della morte, la mantiene in vita in un tempo escatologico intermedio fino al momento della resurrezione totale dell’uomo (non si dimentichi, infatti, che l’anima è cristianamente considerata soltanto come una parte dell’uomo e la sua condizione di sopravvivenza si configura difatti come stato innaturale in attesa della resurrezione di tutto l’uomo). L’immortalità, intesa in modo generale come desiderio di vivere in eterno, può considerare la morte o come momento di passaggio non radicale (prospettiva platonica) o come momento ineluttabile che cambia non la condizione della parte che sopravvive ma la natura stessa dell’uomo in attesa di una futura ricomposizione (resurrezione). In questa duplice prospettiva a cambiare è il ruolo del corpo. Nel caso della visione platonica il corpo, considerato come impedimento e come elemento non essenziale della natura umana, viene semplicemente abbandonato al momento della morte. Platone, infatti, non fa fatica ad immaginare una condizione dell’anima libera dal corpo, proprio perché stando ai principi della sua filosofia tale condizione, lungi dall’essere innaturale è invece lo stato ideale al quale l’anima aspira di ritornare. Per quanto concerne, invece, la prospettiva cristiana c’è da dire che il rapporto con il corpo si fa notevolmente più complesso. In questo caso, infatti, il corpo non è più considerato una parte accessoria della natura umana ma è inteso come una dimensione fondamentale ed essenziale che concorre, in quanto principio metafisico materiale, alla costruzione dell’identità umana che non coincide – come invece accadeva con Platone – con il solo principio metafisico formale, cioè l’anima. Cristianamente l’uomo è il risultato o, meglio, la sintesi di due principi – quello materiale, il corpo e quello formale, l’anima – che insieme contribuiscono alla generazione dell’identità umana. Si potrebbe dire tanto a proposito di questo complesso tema ma per ragioni di spazio mi limito ad invitare il lettore a confrontarsi con le opere di san Tommaso d’Aquino nematicamente dedicate a questo (Tommaso d’Aquino, Questioni disputate. L’anima umanaLe creature spirituali, ESD, Bologna). Oggi l’immortalità sta apparentemente assumendo una nuova forma nell’ambito del paradigma transumanista e si sta velocemente configurando una nuova possibile (?) strada della vita eterna nella forma dell’immortalità digitale. Sebbene i giornalisti o i filosofi entusiasti meno informati la presentino come una sorta di possibilità prossima, a portata di mano, si tratta di una visione che, se attentamente analizzata, non è poi così semplice da comprendere. Innanzitutto bisogna prima di tutto mettere a fuoco la definizione di immortalità digitale. Consapevole della complessità estrema di una simile definizione mi permetto tuttavia, molto sommessamente, a presentarne una qui di seguito:

L’immortalità digitale si potrebbe definire come una forma di immortalità guadagnata per via tecnologica, che consente alla mente umana, considerata come un sistema complesso di informazioni in reciproca interazione, di poter essere trasferita su di un supporto digitale considerato equivalente al corpo umano.  

Qualche delucidazione appare necessaria poiché questa definizione muove da alcuni presupposti antropologici e filosofici considerati certi dalla prospettiva transumanista, ma che invece andrebbero adeguatamente dimostrati. Innanzitutto una prospettiva che considera realizzabile un trasferimento della coscienza su di un supporto digitale ritiene – anche se ciò è tutto da dimostrare – che il corpo sia un elemento inessenziale nella costruzione dell’identità umana. Se la mente, infatti, può essere trasferita da un corpo umano ad un supporto di tipo hardware, appare ben chiaro che essa – almeno così è considerata dai transumanisti – non è in rapporto sinologico con il corpo da cui viene “sganciata”. La mente, in questo quadro, oltre ad essere considerata come il centro assoluto dell’identità umana, che a questo punto può mantenersi inalterata anche senza il proprio corpo, viene considerata in modo tanto aleatorio da poter essere prelevata da un corpo e impiantata su un altro supporto, ma non così evanescente da disperdersi nel passaggio da un supporto all’altro. Verrebbe quindi da chiedersi: di che natura è fatta questa mente ipotizzata dai transumanisti?

Se la mente fosse una sostanza totalmente spirituale essa non potrebbe essere trasferita (quale strumentazione tecnologica sarebbe in grado di realizzare un contatto ontologico con una natura immateriale?). Invece se fosse una sostanza corporea essa non potrebbe essere sganciata dai neuroni che la supportano senza con ciò annichilirsi al momento del trasferimento. Anche se la mente umana fosse soltanto un epifenomeno risultante dall’attività neurobiologica il suo trasferimento sarebbe un’impresa quasi impossibile. Bisognerebbe replicare la complessa rete neuronale della persona, costruita in una vita di ricordi, esperienza, letture, dolori, relazioni, viaggi e vissuti di ogni genere (che insieme hanno plasmato le parti plastiche del cervello) e poi trovare un modo per trasferirvi la mente che in quanto epifenomeno dipende proprio da quella precisa struttura neuronale. Tutto ciò a meno che la rete neuronale ricreata in modo perfettamente identico a quella del soggetto umano non crei spontaneamente una mente altrettanto identica, realizzando così una sorta di clone digitale. In tal caso, però, non potremmo mai avere la certezza che i vissuti del clone digitale siano totalmente sovrapponibili a quelli della persona reale. L’unica possibilità – quella citata nella definizione di immortalità digitale che ho avanzato poco più sopra – sarebbe quella di intendere la mente come un sistema dinamico di informazioni (moltissime informazioni) organizzate intorno una specie di polarità in grado di tenere insieme (senza disperderla) la struttura informazionale e identitaria della coscienza. La teorizzazione di questa polarità – sebbene sia difficilissimo immaginarne la natura - sembra essere necessaria al fine di poter garantire che la coscienza, difatti, non si frantumi in una miriade sterminata di informazioni. Inoltre tale polarizzazione sarebbe importante anche per garantire quella continuità identitaria in grado di giustificare l’appartenenza delle informazioni stesse ad un unico soggetto. Il sogno transumanista, oltre ad incontrare tutte queste difficoltà alle quali qui ho fatto semplicemente un riferimento veloce, muove da un altro presupposto filosofico di origine cartesiana. È stato Cartesio, infatti, ad aver relegato il corpo nel campo della res extensa deprivandolo «di tutte quelle formazioni di senso che si fondano sull’esperienza corporea». Ancora il filosofo francese ha inoltre sottratto l’anima «da ogni influenza corporea» concependola «come puro intelletto» (U. Galimberti, Il corpo, Feltrinelli, Milano, p. 69). Quello di Cartesio è un Io «decorporeizzato e demondanizzato nelle cui funzioni razionali è il senso del mondo» (ivi, p. 70). Da Cartesio in poi, conclude Galimberti, «il termine “esistere” assunse quei due noti significati per cui si esiste come “cosa” o come “coscienza”». Nell’ambito di questa scissione radicale, netta, appunto “chiara e distinta”, si muove oggi la prospettiva dell’immortalità digitale dando per scontato che la complessità della natura umana – che comprende anche il corpo non come mero possesso materiale ma come principio metafisico integrato e inalienabile – possa risolversi in una mente cosciente indifferente al tipo di ‘supporto’ sul quale è implementata. In conclusione, si potrebbe quindi dire che anche per la prospettiva dell’immortalità digitale, che si dovrebbe realizzare con un misterioso trasferimento della coscienza, si inquadra nel filone, si potrebbe dire, platonico. Infatti l’obiettivo (tecnicamente perseguito dagli scienziati transumanisti) è proprio quello di bypassare la morte – alla quale invece il cristiano va incontro per ritrovarvi la vita eterna – continuando a vivere un’esistenza perennemente prolungata sganciandosi dal corpo proprio come nel Fedone, parlando con i propri allievi, si augurava Socrate. 

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