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Titan, è più forte in noi la pulsione di morte o la resurrezione di Cristo?

Tutti i grandi viaggi sono delle metafore così profonde ed efficaci da  ispirare e guidare generazioni di altri viaggiatori, non solo, evidentemente, dello spazio, ma anche della mente, della psiche, dello spirito.

Titan, è più forte in noi la pulsione di morte o la resurrezione di Cristo?

Un miliardario appassionato di imprese impossibili, uno dei più ricchi manager del Pakistan con il figlio 19enne, un sommergibilista che si faceva chiamare “Mr. Titanic” ed il fondatore della OceanGate, la società che per 250mila dollari offriva “un’occasione per uscire dalla vita di tutti i giorni e scoprire qualcosa di veramente straordinario”, ovvero raggiungere il relitto del Titanic a quasi 4mila metri di profondità.Conosciamo tutti il tragico destino che li ha visti morire per l’implosione del piccolo sommergibile che non ha resistito alle tremende pressioni oceaniche. La presenza di due miliardari a bordo è stata accolta, soprattutto sui social, con una feroce ironia, tra meme e post dissacranti, incluso un countdown per attendere la loro morte.La tragedia è stata ripresa abbondantemente dai media focalizzandosi - in modo spesso pruriginoso - su aspetti economici, sociologici, scientifici, persino politici… A me ha colpito invece un particolare riguardante uno dei passeggeri del Titan che ha generato in me una riflessione in chiave “psico-spirituale”.Noi occidentali abbiamo una indomabile pulsione verso l’esplorazione di altri mondi, di altre culture, di altre conoscenze. Dobbiamo a questa nostra “pazzia genetica” le avventure dei grandi esploratori della storia che portarono l’Europa ad incontrare (ma anche a colonizzare con efferata violenza) l’Asia, l’Africa e le Americhe.Tutti i grandi viaggi riportati dalla letteratura, come dalle religioni – fra tutti, i viaggi di Ulisse ed Enea, e quelli di Abramo e Mosè – al di là dei rimandi storici, letterari o religiosi, sono delle metafore così profonde ed efficaci da riuscire ad attraversare le generazioni e le culture, ed ispirare e guidare generazioni di altri viaggiatori, non solo, evidentemente, dello spazio, ma anche della mente, della psiche, dello spirito.Cosa spingerebbe, altrimenti, cinque uomini a chiudersi in uno “scaldabagno” di 6 metri, per scendere ad una profondità 10 volte superiore (!) a quella raggiungibile dalla quasi totalità dei sottomarini militari, senza dotazioni di sicurezza, senza particolari collaudi, pagando un “biglietto” di 250mila dollari?!Le motivazioni (quanto meno più apparenti e superficiali) sono in gran parte riconducibili a quel desiderio di esplorare, a quella “pazzia” di cui ho accennato prima, certamente condita della caratteristica hybris occidentale. Però, in almeno un caso, come accennato, c’è probabilmente qualcosa di più viscerale, più ossessivo, più mortale… La moglie del pilota del Titan, infatti, era la pronipote di Isidor e Ida Straus, due passeggeri di prima classe che erano a bordo del Titanic quando affondò nel 1912, che già tre volte aveva tentato di raggiungere il suo relitto.Come psicologo ad orientamento psicodinamico esistenziale, questo particolare ha suscitato in me alcune osservazioni e riflessioni.Anzitutto, è osservabile l’azione innata della “pulsione di morte” che, secondo Freud, spingerebbe l’uomo verso l’autodistruzione e l’annientamento, che può manifestarsi in modi sottili o, come in questo caso, in modo catastrofico. La scelta di avventurarsi nelle profondità oscure dell’oceano per esplorare un luogo simbolico di morte come il relitto del Titanic potrebbe certamente essere interpretata come una manifestazione di questa irresistibile ed inconscia pulsione di morte.Dall’altra parte dello spettro psicologico, l’approccio umanistico-esistenziale invita terapeuticamente l’uomo a confrontarsi, personalmente e liberamente (ovvero nella coscienza dei propri meccanismi di difesa), con le questioni essenziali della vita (morte, libertà, solitudine, assenza di senso), anche in chiave storica e familiare. Questo percorso parte evidentemente da una rielaborazione del passato – nella fattispecie il tragico naufragio del Titanic del 1912 – ma come fase di un più ampio processo di riconfigurazione creativa di senso e significato della propria esistenza, basato sulla valorizzazione delle proprie qualità individuali, e aperto al futuro e agli altri.Questo attaccamento pervicace e ossessivo al passato, tale da autodistruggersi, mi fa venire in mente “Scena del diluvio” di Joseph-Désiré Court, un dipinto molto suggestivo che mostra un uomo intento a salvare il padre dalla furia dei flutti, ignorando completamente sua moglie che in un estremo sforzo gli porge il figlio. L’intento dell’opera è mostrare il rischio che per salvare il padre (passato), la persona perda la moglie (presente, vita) ed il figlio (futuro)!È questo il rischio di molte psicoterapie, come di tanti percorsi spirituali e filosofici di auto-conoscimento, che ad un certo punto si impantanano nelle spire mortali del proprio passato, dei propri traumi, della propria storia, del proprio irrisolto, e diventano così improduttivi di benessere, di crescita e di guarigione. Questa diventa un oggetto interno, peraltro molto ambiguo, che si nutre delle nostre energie e desideri – l’irascibile e il concupiscibile platonici – “vampirizzando” le parti più nobili della nostra mente e della nostra anima.Mi viene in mente quell’episodio dei Vangeli quando Gesù disse all’uomo che gli chiedeva, prima di seguirlo, di poter andare a seppellire il padre: “Lascia che i morti seppelliscano i loro morti” (Mt 8,21). Questa è una frase che mi è sempre sembrata assurda, persino cinica, ed invece è emblematica dal punto di vista psicologico della condizione per poter fare quello che Freud chiama il “lavoro del lutto”: il processo psichico che permette alla persona di “superare la morte” – qui intesa non solo come evento fisico esterno (la perdita di un caro), ma anche come passaggio interiore cruciale per il proprio percorso di vita in chiave evolutiva. Questo “lavoro del lutto” si sostanzia nel progressivo abbandono del proprio investimento affettivo nell’oggetto perduto, reinvestendolo, trapassandolo, così da poter sperimentare una nuova esistenza. L’alternativa a questo processo sono le “sabbie mobili” della cosiddetta “melanconia”: un abisso narcisistico e triste che ci trascina sempre più in basso, tirati giù da un oggetto che pur non esistendo più, ci perseguita e al tempo stesso ci seduce, condannandoci ad un inferno in terra e distruggendo ogni possibilità di rinascita. L’iniziazione cristiana mostra questo passaggio di discesa, di abbandono, di morte e (però!) di risalita, nel battesimo; un rito che è emblematico di processi evolutivi anche in altri ambiti, non solo spirituali, ma anche filosofici, psicologici, terapeutici.Ad esempio, nei Gruppi Darsi Pace fondati dal poeta e filosofo cattolico Marco Guzzi, i praticanti imparano a distaccarsi dallo stato primitivo dell’Io egocentrato - attraverso l’autoriflessione, la meditazione, l’autoconoscimento dei pensieri e delle emozioni – per entrare in uno stato dell’Io meno condizionato e più profondo, attraverso un processo appunto di discesa, di abbandono. Questa però non è la tappa definitiva – come in altre tradizioni spirituali o nella mindfulness – ma richiede di aprirsi e accogliere mediante la Fede il mistero della risurrezione di Gesù Cristo. Così facendo non rimaniamo nell’abisso (anche se non condizionato), ma riemergiamo (pensiamo ancora una volta al battesimo) con un Io aperto pienamente alla relazione, cioè capace di amore, creatività, impegno. Partoriamo cioè come la Madonna il nostro Io in cui Cristo si fa carne, storia.Trasferendo la dinamica nell’ambito della psicologia possiamo dire che restiamo nel nostro trauma, nel nostro copione, nella nostra coazione ad agire, nei nostri modelli operativi interni, nei nostri schemi (ho volutamente utilizzato diverse accezioni di analoghe condizioni cliniche), ecc. anche per anni. E quel lavoro terapeutico che continuiamo a fare in quella “posizione” diventa sempre meno utile, sempre più ambiguo, sempre più pericoloso.Ecco perché in quel passo del vangelo Cristo dice anzitutto “Seguimi!”: senza questo “scatto di reni” del nostro spirito restiamo impantanati in quell’abisso di morte. Come se il catecumeno immerso nell’acqua, rimanesse sul fondo.Al contrario, aderendo a quel “Seguimi!”, mediante la Fede, nell’ultimo abbandono, possiamo sperimentare un respiro ed un sorriso nuovo!

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