«Se uno mi ama osserverà la mia parola» (Gv 14,23)

Il vangelo di oggi ci conduce nuovamente nel cenacolo, in ascolto delle ultime parole che Gesù dona ai suoi amici. È la notte dell’arresto, notte di angoscia e di buio, ma anche d’intimità e condivisione. Prima di abbracciare la croce, Gesù dialoga con i suoi discepoli per rassicurali e confortarli, per incoraggiarli e spingerli a continuare la sua missione nel mondo.

Gesù chiede ai suoi di vivere la sua assenza come una modalità diversa di presenza: per questo usa il verbo dimorare, un termine che in greco indica lo spazio dove ognuno trova il suo posto. È uno spazio di libertà e gratuità, di pace e di intimità. Ovunque due o tre saranno riuniti nel suo nome, ovunque la comunità credente annuncerà la pace e si adopererà per la giustizia, i discepoli avranno la certezza di essere abitati da Dio, di essere amati dal Padre. 

Con queste parole, il Vangelo conferma che al centro della fede cristiana non ci sono capacità e meriti ma l’amore incondizionato e gratuito del Padre. Non ci sono dottrine e opere, ma lo stupore di scoprirsi amati. Mentre la nostra società martella che abbiamo valore solo se produciamo dei risultati, il Vangelo ci ricorda la verità della vita: siamo amati. Come ha scritto H. Nouwen: «Prima ancora che qualsiasi essere umano ci vedesse, siamo stati visti dagli amorevoli occhi di Dio. Prima ancora che qualcuno ci sentisse piangere o ridere, siamo stati ascoltati dal nostro Dio che è tutto orecchie per noi».

Il testo continua indicando due manifestazioni particolari dell’amore: la Parola e lo Spirito. Osservare la sua Parola, tesoreggiarla nel cuore come Maria (Lc 2,19. 51) è molto più di un comandamento o di un precetto: è continuare la sequela di Gesù! La Parola crea, illumina, guarisce, conforta, libera e salva. La Parola è un seme che germoglia ovunque, anche tra i sassi ed i rovi con la gratuità perseverante che caratterizza l’amore vero. Se uno ama, genera Vangelo perché amando condividiamo la vocazione di Maria, diveniamo madre di Cristo nella nostra storia.

La seconda manifestazione è nello Spirito, il dono per eccellenza: egli permetterà ai discepoli di ricordare la Parola, di comprendere il mistero di Gesù per viverlo nel quotidiano. Come paraclito agisce trasformando i cuori e infondendo in essi un’audacia che li spinge a trasmettere agli altri la loro esperienza di Gesù e la speranza che li anima. Lo Spirito apre orizzonti e spinge ad annunciare il Vangelo a tutti superando ogni barriera geografica, etnica, razziale. Lo Spirito è la forza che rende fedeli alla verità e impedisce di arrendersi: per questo continuiamo a parlare di pace a chi vuole la guerra; a parlare di perdono a chi semina vendetta; a parlare di accoglienza e solidarietà a chi sbarra le porte ed erige barriere; a parlare di vita a chi sceglie la morte; a parlare di rispetto a chi umilia, insulta e scarta; a parlare di fedeltà a chi rifiuta ogni legame, confondendo la libertà con un individualismo superficiale e vuoto.

Il segno della presenza dello Spirito è la pace: non si tratta dell’assenza o della sospensione dei conflitti; sicuramente non è una pace basata sulla forza delle armi e sull’equilibrio del terrore. È una pace altra perché è dono, è impegno e responsabilità da custodire perché la città degli uomini assomigli sempre più alla Gerusalemme che scende dal cielo, «pronta come una sposa adorna per il suo sposo» (Ap. 21,2).

Chiediamoci: come nell’ascolto della Parola ci prepariamo ad accogliere lo Spirito? Siamo portatori di una pace “altra”?