«Ma il Figlio dell’uomo, quando verrà, troverà la fede sulla terra?» (Lc 18,8)
La liturgia di oggi ci aiuta a riflettere su un tema particolarmente caro all’evangelista Luca, la preghiera, offrendoci alcuni compagni di strada: Mosè, Timoteo, e una vedova… persistente. Camminando con Luca abbiamo compreso che la preghiera accompagna ogni momento della storia di Gesù e della comunità dei suoi ed è spesso connessa al dono dello Spirito: la preghiera “attiva” la forza dinamica dello Spirito e lo rende disponibile (Lc 11,13) soprattutto nei momenti di crisi. Proprio la sofferenza, la persecuzione, il silenzio di Dio diventano le doglie del parto di una comunità di discepoli missionari. Come può accadere questo? Il cap. 18 offre una risposta drammatizzata in due parabole nelle quali due personaggi vengono contrapposti: un giudice ed una vedova (vv. 1-8); un fariseo ed un pubblicano (vv. 9-14). In questa domenica iniziamo ad esplorare la prima parte del dittico. Il narratore entra in dialogo con i propri lettori per orientare la loro comprensione del testo (v. 1) anticipando che la parabola riguarda la necessità di pregare sempre senza stancarsi mai. Non si tratta di una possibilità: in un contesto ostile caratterizzato da sofferenza, estraneità e marginalizzazione è indispensabile per la comunità credente perseverare nella preghiera. Per questo Luca propone uno strano racconto (vv. 2-5) che pone faccia a faccia due personaggi. Il primo è un giudice disonesto e l’altro una vedova. L’opposizione crea un quadro a forte tinte. Il giudice rappresenta colui che avrebbe dovuto tutelare la donna applicando la legge. Ricordiamo che in Israele chiunque esercitava il potere lo faceva in nome di Dio, con l’obbligo di difendere i più deboli e di sostenere la loro causa. La donna diviene così il simbolo di tutti coloro che non contando a livello istituzionale sono esposti agli abusi della vita quotidiana. Eppure, la vedova non si arrende. La parabola non culmina nella conversione del giudice: la scelta di «fare giustizia» non scaturisce dalla pietà verso la donna o dalla vergogna per il mancato adempimento del proprio dovere. Il giudice continua ad essere «disonesto» e agisce per togliersi una… seccatura! Come spesso accade, il narratore cede l’ultima parola all’esegeta Gesù (vv. 6-8) che esordisce con un invito ad ascoltare la parabola. Il messaggio è chiaro: la preghiera impegna Dio, lo sollecita a uscire dal suo silenzio per agire, per ricostruire la giustizia in una storia abitata dal male (v. 7; cf. Es 3,7). Pregare, tuttavia, non responsabilizza soltanto Dio ma anche ognuno di noi, come suggerisce la difficile domanda con cui si chiude il nostro testo: «Ma il Figlio dell’uomo, quando verrà, troverà la fede sulla terra?» (v. 8). La venuta del Cristo alla fine del tempo, per instaurare in modo definitivo il Regno di giustizia, chiede il nostro contributo attivo. La nostra responsabilità è definita con il termine fede, che in questo contesto potrebbe essere tradotta come fedeltà nell’attesa. Nello spazio di tempo lungo o breve che l’umanità deve ancora percorrere, gli “eletti” di Dio non possono ripiegarsi sulla loro presunta o reale povertà, ma devono vivere una perseveranza attiva, che nella preghiera trova la forza per porre semi del Regno nella storia quotidiana. La questione fondamentale non è dunque quando Dio interverrà, ma quanto sono disposto a giocarmi di persona per attivare la presenza di Dio nella storia. Celebrare la giornata missionaria mondiale chiede il coraggio di rispondere a questa domanda.

