«Aumenta la nostra fede!» (Lc 17,5)

Le letture di oggi invitano a riflettere sul tema della fede. Non sulla fede intellettuale, semplice accettazione di alcune verità senza incidenza sulla vita, ma sulla fede-relazione capace di trasformare l’esistenza in un cammino a due, io e il Signore.
Il vangelo inizia con una preghiera: «Accresci in noi la fede!» (v. 5). Per comprenderla, dobbiamo però leggere i versetti precedenti (vv. 1-4) dove mancanza di correzione fraterna e di perdono sono definite ‘scandalo’, ostacolo alla crescita comunitaria e personale. Com’è possibile, infatti, che discepoli di Colui che è morto perdonando persino i propri crocifissori (23,34), possano rifiutare il perdono al fratello o alla sorella?
Probabilmente dinnanzi alla prospettiva di un perdono inquietante perché illimitato, gli apostoli reagiscono chiedendo a Gesù di accrescere la loro fede. La risposta del Maestro è, tuttavia, paradossale: invita a porre in atto ciò che già possiedono, perché anche una fede “minima” può produrre risultati prodigiosi. Anche una fede quasi invisibile, come un seme di senape, può sradicare, infatti, una pianta che la presenza di aculei e radici profonde rende irremovibile!
Il senso dell’iperbole è chiaro: nulla è impossibile per chi crede. Non si tratta dunque di misurare la fede con il criterio della quantità, ma dell’autenticità. In sintesi, Gesù sembra dire che il problema non è chiedere un “di più” di fede, colpevolizzando magari Dio perché non la riceviamo, ma attivare la fede che già possediamo. L’invito è dunque ad avere fiducia nella fede, anche se si tratta di una fede bambina, perché essa può operare grandi cose, riuscendo persino a trasformare una comunità umana nel luogo in cui sperimentare la presenza di Dio, condividendo la sua stessa capacità di amore e di perdono.
Perché ciò accada, Luca ricorda che fede non è sforzo moralistico ma relazione: credere è vivere per/con/in Dio. Per questo la qualità della fede è il test del nostro rapporto con Lui. Per aiutarci a capire, Gesù racconta una parabola il cui significato potrebbe essere racchiuso in uno slogan: al servo è chiesto di comportarsi da servo. Ciò può risuonare socialmente ingiusto ai nostri orecchi, ma nella Palestina del I sec. in cui servizio e schiavitù erano realtà comuni, doveva essere un concetto ampiamente condiviso: dopo aver lavorato tutto il giorno nel campo era “normale” che il servo continuasse a servire il suo padrone. Egli non attende gratitudine, dato che sta facendo ciò che deve fare.
Cosa intende dire Gesù con questo? Vuole forse togliere valore all’azione umana? Non ritengo che il testo vada in questa direzione ma credo che voglia spingere tutti noi verso un sano realismo. Nella consapevolezza di ciò che è, il servo non usa il proprio lavoro come strumento di rivendicazione o vanto nei confronti del padrone. Allo stesso modo il discepolo missionario sapendo che tutto ciò che è e possiede gli è stato donato, non vivrà nell’orgoglio per le “sue” opere ma trasformerà la propria esistenza in un canto di lode a Colui da cui tutto proviene.
Essere servi inutili equivale, dunque, a «rinunciato a fare qualcosa di noi stessi» (Bonhoeffer) per lasciarci fare da Dio. Soltanto perché Lui ci precede, possiamo seguire; soltanto perché Lui perdona, possiamo perdonare; soltanto perché Lui è con noi possiamo continuare ad annunciare il Vangelo «con forza e amore» persino nella persecuzione e nel martirio (2Tm 2,6).
Chiediamoci: come mi relazioni con Dio? Per ciò che sono o per ciò che pretendo di essere?