«Le mie pecore ascoltano la mia voce e io le conosco ed esse mi seguono» (Gv 10,27)

I versetti conclusivi del discorso sul vero pastore scaturiscono dalle provocazioni dei suoi oppositori che insistono per una dichiarazione esplicita: «Se tu sei il Cristo, dillo a noi apertamente» (10,24). Leggendo attentamente il testo, tuttavia, comprendiamo che la polemica con i Giudei non è il fulcro del racconto. Il centro è la rivelazione dell’identità di Gesù e dei suoi discepoli attraverso l’icona del pastore.
L’immagine diviene ancora più chiara quando è letta sullo sfondo della seconda lettura, che presenta una moltitudine immensa, composta da coloro «che hanno lavato le loro vesti, rendendole candide nel sangue dell’Agnello» (Ap 7,14). Anche se la storia sembra essere determinata dai potenti di turno e avvolta dalle tenebre della violenza, il libro dell’Apocalisse svela che essa sta già generando il Regno grazie ai santi della porta accanto, a donne e uomini che offrono se stessi per amore: l’amore per un figlio, un compagno di strada, uno straniero, uno scartato, una vittima della violenza e dell’ingiustizia… Sono discepoli che seguono il Pastore-Agnello donando come Lui la vita.
Le poche righe del vangelo di oggi conducono, dunque, alla sorgente dell’amore autentico, l’amore che guarisce le ferite del mondo e unisce persone appartenenti ad ogni popolo, lingua e cultura: un amore costruito sui pilastri della conoscenza, della sequela e della comunione.
Il verbo conoscere indica una relazione di reciprocità, intima: Gesù conosce i suoi e i suoi lo conoscono, così come Egli conosce il Padre ed è conosciuto da Lui. Ricordiamo che la conoscenza del Padre costituisce per Giovanni la vita stessa: «Questa è la vita eterna: che conoscano te, l’unico vero Dio» (Gv 17,3). Non si tratta dunque di una conoscenza di tipo intellettuale, ma di una relazione profonda che richiede tenerezza e amore, responsabilità e impegno totale.
Essere discepoli scaturisce proprio da questa relazione: so chi sono perché so a chi appartengo. Sono figlio del Padre, dimoro in Lui. Non si tratta di un legame formale, perché Dio può far sorgere figli di Abramo perfino dalle pietre (Lc 3,8), ma di un rapporto autentico. È da questa intimità che nasce l’amore gratuito, creativo, efficace, capace di uscire da se stesso, di andare fino alla fine, fino al compimento supremo.
Giovanni ribadisce che si tratta di un rapporto dinamico che scaturisce dall’ascolto: Dio rivela progressivamente il Suo nome nelle diverse Parole in cui si rende incontrabile: la Scrittura, gli eventi, gli incontri. La conoscenza, dunque, è un cammino progressivo e infinito, perché l’altro è un mistero mai esaurito. È dinamico anche perché si conosce solo seguendo: non si conosce a distanza e non si conosce nel possesso dell’altro. L’amore non addomestica l’altro ma dona spazi per divenire se stesso. L’esito è la vita eterna una speranza che riempie il nostro quotidiano di senso perché sappiamo di vivere nelle mani più sicure, quelle del Padre. Nessuno può, infatti, rapire i credenti dalla sua mano, perché chi appartiene al Cristo vive con Lui, per Lui ed in Lui la comunione piena con il Padre.
Penso che il testo di oggi generi in noi, come nella comunità delle origini, un senso di gratitudine ed insieme la responsabilità di condividere la paternità contagiosa di Dio nella cura dell’altro, donando tempo, energie, la vita tutta… per l’altro, soprattutto per i poveri e gli oppressi con cui Cristo non cessa di identificarsi.
Chiediamoci: Conosco Gesù? Ascolto la sua voce? Come?