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Monsignor Sprovieri: un ricordo che resta sempre vivo

Ricordiamo la sua nascita (il 18 maggio del 1930) per riaffermare, come lui insegnava, il bisogno di ritrovare le radici per vivere meglio il presente

Monsignor Sprovieri: un ricordo che resta sempre vivo

“La sua vita fu segnata dalla morte del suo io”. Questa è la provocazione di mons. Serafino Sprovieri nel ricordo della sua nascita terrena. Patriarca di Cristo perché uomo di fede, abitato totalmente da Dio. Qui sta l’origine dell’ansia pastorale di Serafino Sprovieri che lo portava ad ascoltare tutti in modo criticamente aperto, anche le resistenze, le fatiche e perfino i tratti di confusione che talora ci portiamo dentro.

In un tempo in cui la memoria del passato si è fatta fragile e l’interesse per la storia ristretto e sequestrato, si avverte la necessità di ritrovare le radici per vivere meglio il presente e soprattutto elaborare il senso del futuro.

Il ricordo della nascita di mons. Sprovieri avvenuta in San Pietro in Guarano il 18 maggio del 1930, ci offre l’occasione per rendere omaggio ad una memoria provocatoriamente significativa perché contiene la storia di una vita al servizio di Cristo, dell’uomo e della Chiesa.

Questo è, allora, un momento di vita, non di ricordi; di impegno, non di rimpianti; è apertura al Dio che viene sempre in modo nuovo. Il tentativo di Hölderlin, perciò, di congiungere nella festa Dioniso e Cristo non è sincretismo religioso, ma sguardo pungente che della festa attraversa il lato del compimento totale.  

Una vita interessante, quella di mons. Sprovieri, che andrebbe riferita nei minimi particolari, ma innanzitutto compresa nelle coordinate ermeneutiche portanti del suo esemplare impegno intellettuale e pastorale. Comunque è difficile racchiudere in poche parole le azioni, gli scritti, gli ideali che animarono un uomo di levatura eccezionale quale fu Serafino Sprovieri.

Nel suo lungo ministero episcopale ha donato alle chiese che ha rettamente amato e servito Lettere pastorali che restano per tutti come un testamento spirituale e un monito a continuare che ci invita ad amare la Chiesa e a servirla al di là dei suoi limiti e delle sue povertà.

Se fosse toccato a me apporre una scritta sulla sua tomba l’avrei immortalato con queste due parole: Dilexit ecclesiam.

Infatti, davanti ai suoi occhi, assieme al volto di Cristo e a quello di Maria, vi era legato quello della Chiesa che egli amava e ammirava.

L’azione pastorale di don Serafino seppe con maestria mostrare quanto non si oppongano, ma possano convergere, lo “spiri­tuale” e il “pensatore”, il cristiano che cerca con radicalità il suo Signore e il credente, spesso il teologo e il pastore, che ri­flette sulle condizioni per rendere comprensibile e praticabi­le la fede nel contesto attuale.

Tutti questi elementi hanno confluito a porre in essere una piattaforma epistemologica che, su basi aggiornate e rinnovate e grazie al dialogo tra concezioni classiche e innovazioni moderne, si è continuamente arricchita degli apporti dei numerosi interessi coltivati nel corso della sua intera vita: lo studio della matematica, dell’astronomia, delle scienze naturali, della medicina, della musica, ma in particolar modo della teologia e della filosofia della storia. Infatti, si sforzava di approfondire il rapporto tra fede e storia, dunque tra Chiesa e mondo, senza con ciò pigiare il senso della trascendenza.

Il Signore lo ha chiamato a sé dopo una lunga vita terrena e da Padre ha riversato su di lui quella misericordia che egli, nel suo ministero pastorale, ha fedelmente incarnato ma soprattutto trasmessa ai suoi fedeli. 

Il vissuto di don Serafino ci incoraggia a rimanere vigili, a non cedere alla tentazione di facili evasioni, ad affrontare la realtà, coi suoi problemi, con coraggio e responsabilità, a rischiare tutto sulla Parola del Signore, ad essere “sentinelle del nuovo mattino”: stare in guardia di fronte ad ogni attacco e minaccia del male, stare in piedi di fronte alle correnti impetuose delle ideologie e delle menzogne, stare dritti nell’impegno del bene senza scoraggiamenti e abbandoni, stare fermi nella fedeltà a Dio e al suo volere.

Facciamo tesoro della sua testimonianza di sacerdote e di vescovo e dedichiamoci, illuminati dal suo esempio, alla ricerca dell’essenziale e del vero bene, con uno sguardo di fede verso l’eternità, e ritornando seriamente a pensare la verità che non passa.

Proprio perché il suo lascito non vada perduto mi piace concludere con un’espressione cara alla tradizione liturgica ortodossa “Eterna sia la sua memoria”!

 

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