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LA LEZIONE DELL’ON. ALDO MORO E L’ATTUALE «NIENTE DELLA POLITICA»

A quant'anni dalla morte del grande statista italiano

Parole chiave: moro (2), politica (14), cosenza (519)
LA LEZIONE DELL’ON. ALDO MORO  E L’ATTUALE «NIENTE DELLA POLITICA»

Venerdi 11 maggio a Cosenza, presso il Museo Multimediale di piazza Bilotti, l’avv. Franco Petramala ha organizzato un interessante convegno sul tema:Aldo Moro dalla sua  profezia al futuro del nostro paese, con l’intervento del vescovo di Cassano Ionio mons. Francesco Savino, che darà sicuramente a tanti – ma in modo particolare ai democratici cristiani (che non sono mai scomparsi) – la possibilità di ripensare e di riflettere sull’esperienza politica morotea, rapportandola però al contesto attuale.

Nella vasta produzione di articoli e saggi dedicati al presidente Moro, nell’ultimo libro pubblicato, in ordine di tempo, scritto dal direttore de L’EspressoMarco Damilano, Un atomo di verità. Aldo Moro e la fine della politica in Italia, c’è nella pagine iniziali, una sottolineatura della religiosità di Moro, particolarmente significativa. Scrive Damilano: «Vedendo Moro in ginocchio e che prega, penso che quel gesto, da parte di un uomo che avrebbe poi trovato tanti, tutti pronti a genuflettersi di fronte a lui, rappresentasse il richiamo di un senso del limite, il limite del suo potere. Doveva ricordarlo a se stesso perché nessuno lo avrebbe fatto appena uscito da quella piccola chiesa, e per tutto il resto della giornataۜ». C’era in Aldo Moro, che Italo Mancini definì il più pio e il più laico dei politici cristiani, la consapevolezza del legame tra politica e valori, tra spiritualità e l’agire politico quotidiano che doveva trarre dalla dimensione religiosa la giusta ispirazione. C’è un altro aspetto che desidero sottolineare, relativo alla frase contenuta nell’ultimo discorso pubblico di Aldo Moro, tenuto a Benevento nel novembre 1977, e che racchiude, sia pure sinteticamente, ma in maniera emblematica, il pensiero politico moroteo, la profonda sensibilità culturale e istituzionale finalizzata a comprendere le complesse problematiche della società italiana di quegli anni: «Voi – rivolgendosi ai comunisti –, siete diventati quello che siete perché noi abbiamo contribuito a farvi essere cosi; come noi democratici cristiani siamo diventati quelli che siamo perché voi avete contribuito a farci essere così».

Si coglie in questo passaggio tutto l’insegnamento di Moro, per una democrazia non imperniata sull’unanimismo e quindi sull’immobilismo, ma fondata sul principio di una democrazia compiuta, quella caratterizzata dall’alternanza tra maggioranza e opposizione, sulla base della condivisione di comuni regole della dialettica politica, nella linea dei valori fissati dalla Costituzione. Era la cosiddetta democrazia dell’alternanza, tesi perseguita da Moro ancor prima del crollo del Muro di Berlino del 1989. Un’idea di democrazia compiuta nella consapevolezza che il sistema democratico  «non fosse uno spazio da occupare, ma una casa comune sempre da custodire e consolidare con le altre culture politiche». Intorno a questa teoria dell’alternanza, fondata sulprimato moroteo del capire si snoda l’ultimo itinerario politico di Aldo Moro prima che accadesse quella che Italo Mancini definì «l’inarginata tragedia» iniziata il 16 marzo e drammaticamente conclusasi il 9 maggio 1978.

C’era in Aldo Moro oltre alla consapevolezza del legame tra «politica e valori, anche quello relativo alla politica e consenso popolare alla luce di equilibri istituzionali efficaci tra moralità dei fini e moralità dei mezzi». Era una consapevolezza, questa, che veniva da lontano, sin da quando giovane docente universitario, non ancora “costituente”, aveva scritto che lo «Stato non può ridursi a Stato di partito, ma deve essere la comunità di tutti gli enti sociali dalla famiglia al sindacato», promuovendo la tendenza all’inclusione e coinvolgendo tutte le realtà popolari nei processi democratici e di sviluppo evitando steccati invalicabili. In questa consapevolezza c’era «l’approccio al sentimento e al gusto del consentire – con gli altri, tutti gli altri – quando non fossero a rischio personali e meditate convinzioni».

Ha scritto Mino Martinazzoli, forse uno dei democratici cristiani più profondi nell’interpretazione del pensiero di Aldo Moro, che «l’opzione morotea della democrazia compiuta all’interno della più complessa terza fase, deriva dal riconoscimento del valore centrale della persona umana, di ciascuna persona, che non sta al centro di una solitudine o di un egoismo ma si arricchisce di una proiezione solidale», nel più ampio pluralismo sociale e politico.

Ripensare all’esperienza morotea, così come si verificherà nell’iniziativa del prossimo 11 maggio a Cosenza, significa anche «ritrovare qualcosa del nostro passato, per il nostro presente e soprattutto per il nostro futuro», per evitare di rassegnarci al dilemma di «un popolo e di un paese che, se non ha bisogno di eroi, non ha neanche bisogno di comici», e per non ridurre la democrazia e la dialettica politica alla partecipazione e gestione di una piattaforma web che, pur nella sua più avanzata forma tecnologica, è ben lontana dal confronto moroteo con le dinamiche comples se dell’intera società italiana e che se non potranno essere comprese con «il troppo della politica», neanche riusciranno ad essere governate con «il niente della politica» di queste ultime settimane successive al voto del 4 marzo.

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