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Officina delle Arti: un passo per una dimensione parallela

Da distributore di energia elettrica della città a erogatore di riflessioni, pensieri, e divertimento; così l'Officina delle Arti opera nella cornice del centro storico di Cosenza.

Da centrale elettrica abbandonata a fucina teatrale, dove è obbligato pensare

Ars gratia artis, l’arte per l’arte; ed è proprio per far fuoriuscire la propria vena artistica individuale che, nel cuore del centro storico di Cosenza, opera l’Officina della Arti. Vecchia centrale di produzione elettrica un tempo, un piccolo spazio creativo oggi, dove la relazione attore – spettatore; o meglio ancora la linea di demarcazione che li separa, si fa più sottile che mai. Basta solo un passo, da quando si varca quella soglia, che i suggestivi scorci della Cosenza vecchia fanno da cornice introduttiva all’atmosfera dell’Officina. Una porta azzurra si apre, dei drappi blu notte accompagnano il visitatore all’interno di questo spazio, composto in larga parte da tavolini circolari e sedie; ai lati mura in pietra e un tetto spiovente con travi in legno. Piccole e colorate luci pendono inoltre sopra le teste degli spettatori, rendendo l’atmosfera ancora più suggestiva, e calandolo in un mondo tutto nuovo. L’arredamento, ancora, richiama molto il vintage; ma non sembra collocarsi in una contesto storico particolare, come se chi vi entri si ritrovi trasportato direttamente nel “senza tempo”. In fondo alla sala lo spazio scenico, caratterizzato da un ripiano rettangolare, con le varie scenografie annesse; un approccio alla scena dunque molto particolare per chi vi entra, poiché qui non si assiste ad una semplice rappresentazione teatrale, ma ad un “obbligo” di pensiero. Eduardo Tarsia il suo ideatore e fondatore che, più di dieci anni fa, ebbe l'idea di rendere quel vecchio rudere una vera e propria Officina delle Arti.

Quando nasce l’Officina delle Arti?

L’Officina nasce il 13 giugno 2010, nel giorno di Sant’Antonio. Prima è stata acquisita, ristrutturata da noi; e non avendo nessun tipo di finanziamento siamo artigiani, facciamo tutto da noi.

Perché assegnarle questo nome?

Questa è stata una combinazione, perché abbiamo comprato assieme a mia moglie questo stabile; che era la prima centrale di produzione di corrente elettrica della città di Cosenza. Entrò in funzione nel 1906, e poiché col tempo e il grande spazio che aveva per produrre corrente era molto abbondante, spostarono le apparecchiature di produzione in un’altra sede, e qui lasciarono un garage dove aggiustavano pezzi di altre centrali; appunto un’officina. Sull’esterno, dalla parte del cortile, c’è scritto con caratteri a fuoco ‘Officina’; quindi noi abbiamo preso in prestito questo titolo e abbiamo aggiunto semplicemente, poiché facciamo arte, ‘delle Arti’. Sebbene sia diventato di uso comune questo nome, la nostra è comunque una vera e propria officina, nella quale si produce materiale artistico.

Nei suoi spettacoli, predilige qualche tradizione teatrale in particolare? Non disdegno il dialetto, perché non la ritengo una lingua inferiore; non accetto il giudizio delle opere di serie B, e quindi ho sempre avuto questa logica teatrale; contaminare i linguaggi in italiano, nel nostro dialetto, con altri dialetti e con altre lingue. Anche l’ultima stagione che stiamo portando avanti è molto particolare, dove c’è la contaminazione linguistica tra italiano e dialetto.

Quali sono principalmente i generi che vanno in scena? Io prediligo un teatro che posso definire di varietà, di cronaca, di storia. È un teatro che lascia prendere qualcosa, un teatro che lascia un’emozione. Non mi piacciono i testi imbalsamati, non li metto in scena perché ci hanno già pensato in tanti a farlo; io amo molto i testi che parlano della mia lingua e della mia terra; mi riferisco alla Calabria e ai suoi personaggi. Partendo dalla seconda metà del ‘700, mettiamo in scena fatti di cronaca che tiriamo fuori da alcuni giornali dell’epoca; da ‘Cronaca di Calabria’, la cui redazione si trovava sopra il Renzelli, a Corso Telesio.

Cosa è che deve ricevere lo spettatore, una volta concluso lo spettacolo? È una logica un po’ diversa di teatro, senza pareti, tutto libero; noi siamo anche tra gli spettatori, per cui tutto è palcoscenico. Abbiamo il contatto fisico, tra le altre cose; ma quello che noi prediligiamo è l’emozione, a parte la conoscenza di luoghi e personaggi. Lo spettatore deve rimanere contento dentro, non contento perché ha passato una serata; nella quale non hanno pensato, noi invece li obblighiamo a pensare, a riflettere, a conoscere. Questo è un altro limite del nostro teatro contemporaneo, non si conosce nessuna problematica oppure si riportano storie d’annata, che ci interessano e non ci interessano. Nel nostro teatro ancora si mangiucchia pure, e questa è un’altra emozione che noi diamo; si socializza, si parla. Estraiamo poi a sorte cinque biglietti per ogni serata, che comprendono ingrasso omaggio o gratuito per le prossime puntate. Non regaliamo soldi, ma biglietti per ritornare a teatro.

 

Allegato: FB_IMG_1571672818369.jpg (154,29 kB)
Da centrale elettrica abbandonata a fucina teatrale, dove è obbligato pensare
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