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Siamo ancora capaci di compassione?

I segni delle mascherine sui volti provati degli operatori sanitari, il lugubre sfilare dei convogli militari che trasportano i deceduti in altri cimiteri, perché non c'è più posto nemmeno per loro. Davanti a queste immagini come si fa ad anestetizzare i propri sentimenti? Ben vengano gli hashtag, gli slogan, i cartelloni. Ma diamoci anche il tempo per compatire. 

Siamo ancora capaci di compassione?

Che sia un momento storico “ad alta intensità di riflessione” per i singoli e per la società è indubbio. Quello che non sappiamo, però, è se siamo ancora capaci di compassione. Il termine, etimologicamente, significa soffrire insieme. Dando un rapido sguardo ai social network, sembra proprio che questa sofferenza, che molti si trovano a vivere a causa dell'epidemia che imperversa,debba essere allontanata e non condivisa da chi non è coinvolto in prima persona. E non si parla solo di coloro che in spregio a qualsiasi ordinanza o regola di buonsenso continuano ad uscire, ma molto più di coloro che concepiscono questo periodo come una vacanza, come una puntata di Masterchef, come un passaggio forzato per riappropriarsi della libertà di movimento. Ogni giorno ci giungono immagini che ci raccontano esattamente quello che stiamo vivendo - il noi è d'obbligo- a causa del coronavirus. I segni delle mascherine sui volti provati degli operatori sanitari, il lugubre sfilare dei convogli militari che trasportano i deceduti in altri cimiteri, perché non c'è più posto nemmeno per loro. Davanti a queste immagini come si fa ad anestetizzare i propri sentimenti? Ben vengano gli hashtag, gli slogan, i cartelloni. Ma diamoci anche il tempo per compatire. Compatire quell'amica che vive al nord e non è tornata per non rischiare di contagiare i propri genitori, compatire quell'amico che si trova a Milano per lavoro ed ha responsabilmente deciso di non ritornare in Calabria dalla moglie e dal figlio piccolo, compatire quella mamma e quel papà che ogni sera al sud pregano insieme per i propri figli che sono lontano. Compatire, sì, perché facciamo tutti parte di un'unica famiglia e questa pandemia ce lo sta ricordando quotidianamente. Vengono alla mente le parole del salmista: "Ecco, com'è bello e com'è dolce che i fratelli vivano insieme!" Vivere l'unione spirituale: questa è la chiamata! "Perché là il Signore manda la benedizione, la vita per sempre".

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