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Roma, brucia!

Nel romanzo storico di Bruno Cantamessa l’incendio della “Caput mundi” e i rischi di un potere senza limiti.

“Il principato è una rischiosa necessità. È rischioso per il pericolo che il potere diventi prerogativa di uno solo generando così una tirannia, ed è al contempo necessario che il potere sia nelle mani di uno solo, se si vuole un governo stabile ed efficace”.
Questa riflessione sulla natura del potere potrebbe appartenere ad epoche assai lontane tra di loro, quella di Tacito e Svetonio, quella di Carlyle e delle sue riflessioni sul tiranno o quella delle inquiete ipotesi di Trevor-Roper su Hitler. Potrebbe anche essere parte di una delle nostre discussioni di cittadini sulla necessità di un potere più o meno forte, di una democrazia “verticale” o garantita dalla coesistenza di poteri intermedi. La natura, le debolezze e gli eccessi del potere non cessano di riempire libri di storia e cronache politiche. Ma quella frase, attribuita al personaggio – peraltro non inventato – di Lucio Verginio Rufo (14-97 d.C.) riguarda un altro esempio di potere forte dell’antichità, quello che si trovò tra le mani l’imperatore Nerone quando, come molti tiranni, si liberò dei prudenti consiglieri (e Seneca tra questi) che l’avevano guidato nell’età giovanile e si circondò di pericolosi ed infidi adulatori. Il saggio Rufo, tre volte console sotto diversi imperatori, è la voce narrante e insieme il protagonista di “Roma brucia!” (Città Nuova, 140 pagine), romanzo storico scritto da Bruno Cantamessa, che ci aiuta a comprendere meglio cosa sia successo davvero nell’estate del 64 della nostra epoca, quando tre grandi quartieri della città allora più popolata del mondo (circa un milione di abitanti) andarono letteralmente in fumo e altre zone della città vennero gravemente intaccate dalle fiamme. Le insulae, vere e proprie abitazioni popolari a più piani e di legno, divennero vere e proprie micce che propagarono il fuoco, tanto che ben presto un terzo della popolazione rimase senza abitazione. Cantamessa e il suo portavoce storico-narrativo non credono al caso di una scintilla in una zona in cui vi era già inquinamento (scarichi a cielo aperto, rifiuti, rumori e fuochi notturni) e scarso senso della salute pubblica. La fiction tine conto di ipotesi fatte da storici di rilievo che accusano lo stesso imperatore o la sua cerchia (soprattutto Tigellino, il capo della sua guardia del corpo) di aver inaugurato la prima vera e propria speculazione edilizia della storia, facendo fuori quartieri infruttuosi e miseri (Nerone amava la bellezza, a modo suo, e sulla bellezza fine a se stessa Cantamessa dice cose interessanti), riunendo zone di proprietà imperiale in modo da poter contare su un formidabile potenziale edilizio. Se la gente non cercava un capro espiatorio, il palazzo glielo trovò in ogni caso, non si sa mai. In questo modo mentre i cristiani (che erano ancora difficilmente distinguibili dai Giudei presenti a Roma) venivano, vecchi, bambini, donne, massacrati nei modi più crudeli, l’imperatore poteva, o almeno così pensava, rafforzare il suo potere e l’ammirazione del popolo nei suoi confronti. Ma la sua nemesi era in agguato. Lentamente truppe ribelli si ammassarono ai confini, il senato riuscì a rialzare la testa e i cortigiani stessi abbandonarono il tiranno che si dette la morte nel 68 dell’epoca cristiana.
Molti sono gli spunti che ci offre questo libro: l’approfondimento della vita dei primi cristiani a Roma, delle tradizioni familiari romane, della triste consuetudine di chiedere e concedere, anche se talvolta il potere concede senza che siano in molti a chiederlo, la vittima sacrificale che carichi su di sé il peso del potere, della crisi, della paura.
Cantamessa ci pone di fronte a questo affresco in cui, sullo sfondo, assieme alle fiamme che divorarono la Caput mundi, appaiono altri inquietanti bagliori, quello del rapporto tra crisi sociale – e morale -, potere e affermazione di sé da parte del leader carismatico al di là del bene e del male. Le catastrofi che puntualmente hanno messo la parola fine ai percorsi assolutistici dovrebbero farci ragionare non solo sulla pericolosità di un potere senza limiti ma anche sulle ragioni che ne hanno reso possibile l’affermazione nonostante il ricordo di quelle catastrofi.

Fonte: Sir
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