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L'impresa di raccontare l'invisibile

Don Ivan Maffeis, da qualche giorno direttore dell'Ufficio nazionale per le comunicazioni sociali della Cei, ha scritto "Cronisti dell'invisibile. Informazione religiosa, 15 protagonisti si raccontano". A chi fa informazione religiosa è richiesta maturità umana, spiritualità, originalità e formazione permanente.

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L'impresa di raccontare l'invisibile

Raccontare l’invisibile… Trovare le parole giuste per narrare - semmai sia possibile - la Parola… Mettere in comunicazione l’attimo con l’eternità, il frammento con l’insieme, il provvisorio con il definitivo… Non è un lavoro semplice quello cui sono chiamati i professionisti dell’informazione religiosa. Esistono competenze specifiche richieste a quanti parlano di Chiesa e cristianesimo? Qual è l’identikit di chi fa informazione religiosa? In definitiva, quale dovrebbe essere la sua postura?
A corollario di tanti interrogativi, che interpellano gli addetti ai lavori, ma non solo, torna alla mente quanto affermava Walter Ong, un grande studioso gesuita: “Occupandosi di parole, l’uomo si è sempre trovato profondamente coinvolto in domande sul tempo, sull’eternità, sulla sua stessa identità”. E questo vale ancora di più per chi fa delle parole e della loro rappresentazione plastica il proprio lavoro. “L’inchiostro delle parole - osserva don Ivan Maffeis, da qualche giorno direttore dell’Ufficio nazionale per le comunicazioni sociali della Cei - è la capacità di lasciare entrare il mondo che si descrive, di vivere le cose insieme alla gente, di immedesimarsi con le difficoltà, i problemi e i destini degli altri, arrivando persino a rinunciare a qualcosa di sé, della propria estrazione”. E ancora: “Scrivere è restituire voce a ciò che è stato, aprire la propria porta al mondo che si racconta, ai colori e alle sfumature delle cose, ai destini degli altri”. Brevi riflessioni cui don Maffeis dà voce nel suo libro - di recente pubblicazione - “Cronisti dell’invisibile. Informazione religiosa, 15 protagonisti si raccontano” (Ed.Ancora). Un libro d’interviste - “forse il metodo più antico di indagine psicologica” e “tuttavia un genere non facile”, commenta monsignor Domenico Pompili, vescovo eletto di Rieti e suo predecessore alla guida dell’Ufficio Cei - dove 15 “indiscussi protagonisti” raccontano dal loro punto di vista l’informazione religiosa: traguardi, soddisfazioni, incertezze, difficoltà, timori….
Lucio Brunelli (Tv2000 e RadioinBlu), Marina Corradi (Avvenire), Domenico Delle Foglie (Sir), Massimo Franco (Corriere della Sera), Franca Giansoldati (Il Messaggero), Ferdinando Giuliano (Financial Times), Irene Hernández Velasco (El Mundo), Federico Lombardi (Sala Stampa Vaticana), Raffaele Luise (già Radio Rai), Stefano Maria Paci (Sky Tg24), Paolo Rodari (La Repubblica), Andrea Tornielli (La Stampa-Vatican Insider), Aldo Maria Valli (Tg1 Rai), Giovanni Maria Vian (L’Osservatore Romano), Dario Edoardo Viganò (Centro televisivo Vaticano): dai loro racconti, sintetizza l’autore, “emergono, insieme alle criticità della professione, gli elementi di forza con cui affrontare questa nuova stagione. Ne è emblema la scrittura imposta dalla rivoluzione di Papa Francesco: senza troppe mediazioni ma anche senza semplificazioni”.
Sfogliando le pagine del volume, colpisce la dedica: “A don Agostino Valentini. A Vita Trentina e Radio Trentino inBlu, perché il riscatto parte dall’abitare il territorio”. Don Valentini è stato predecessore di Maffeis alla guida del settimanale e della radio della diocesi di Trento… ma cosa c’entra mai questa dedica con il racconto dei 15 giornalisti? La risposta viene dall’esperienza stessa dell’autore: solo raccontando la vita reale, il giornalismo al tempo della Rete si potrà salvare. Perciò “il riscatto parte dall’abitare il territorio”. Con un’avvertenza che giunge dalla tradizione dei settimanali diocesani: il territorio non è un semplice confine geografico, a volte considerato con disprezzo. Il territorio è l’umano! Da qui l’impegno, per vocazione e missione, a dare voce a chi non ha voce. Ecco, allora, che il cerchio si chiude: il territorio può offrire gli strumenti adatti per raccontare l’invisibile. In modo particolare, consegna ai professionisti una duplice “attenzione”. Anzitutto: un vocabolario purificato che rifiuta non tanto le parole difficili, quanto quelle vane. Il territorio insegna a scavare dentro di sé; porta a un continuo dialogo interiore tra fede e ragione, a un continuo ascolto della propria coscienza. È questa “fatica” a suscitare nel lettore il desiderio di andare oltre.
C’è poi un’altra “attenzione”, complementare alla prima: il territorio funge da criterio discriminante rispetto ai codici utilizzati dalla cultura dominante - apparire, consumare, acquistare - particolarmente in voga nei mass media. La conseguenza peggiore della mentalità comunicativa attuale è il progressivo svuotamento di significato di molte parole appartenenti al vocabolario della vita, della fede, della Chiesa. Le parole rendono difficile la comprensione del messaggio, non consentono il formarsi di una corretta opinione pubblica e, nell’informazione religiosa, non riescono a comunicare appieno la comunità ecclesiale. Dinanzi a tale scenario, il territorio porta l’esigenza di un linguaggio che consente al messaggio di essere comprensibile e di entrare nel cuore e nella mente delle persone.
Due “attenzioni” sulle parole, sul linguaggio, che rimandano ad alcune esigenze evidenziate dagli intervistati di Maffeis: a chi fa informazione religiosa è richiesta maturità umana, spiritualità, originalità e formazione permanente. Solo con questa dote si può provare a raccontare l’invisibile…

Fonte: Sir
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