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Contro la cultura dello scarto

L'enciclica di Papa Francesco è il documento ecclesiastico più importante degli ultimi tempi relativo alla tematica del problema ecologico globale

Contro la cultura dello scarto

La «nostra casa comune»: è questa l’immagine assai suggestiva che Francesco usa per descrive il nostro pianeta nella Laudato sì  (Lettera Enciclica Laudato sì del Santo Padre Francesco sulla cura della casa comune, n. 3). L’Enciclica di Francesco è senz’altro il documento ecclesiastico più importante degli ultimi tempi relativo alla complessa tematica del problema ecologico globale. È un’Enciclica che, come ricorda esplicitamente il Santo Padre, muove verso uno scopo ben definito: «entrare in dialogo con tutti» proprio sui gravi problemi ambientali (n. 3). Non è stato certamente Francesco il primo Pontefice ad aver attirato l’attenzione sulla crisi ecologica, che peraltro ha avuto inizio molto tempo prima rispetto alla data di pubblicazione dell’Enciclica (2015), sebbene abbia conosciuto drammatiche accelerazioni negli ultimissimi tempi. Prima di lui il beato Paolo VI, san Giovanni Paolo II e il predecessore Benedetto  XVI hanno via via insistito sui vari aspetti di questa complessa dinamica globale, rimarcandone di volta in volta aspetti diversi e importanti. Dalla modificazione dei «modelli di crescita che sembrano incapaci di garantire il rispetto dell’ambiente» (n. 6), al recupero di una visione del mondo basata sulla consapevolezza della custodia del creato a cui è chiamato l’uomo «sulla base della prima originaria donazione delle cose da parte di Dio»  (n. 5). Ma il riferimento senz’altro più importante è costituito da san Francesco d’Assisi. Il Santo è «l’esempio per eccellenza della cura per ciò che è debole e di una ecologia integrale, vissuta con gioia e autenticità» (n.10). È proprio la testimonianza di san Francesco, infatti, a sollecitarci con forza ineguagliabile verso una visione in grado di trascendere «il linguaggio delle scienze esatte o della biologia» (n.11) per aprirci verso una concezione che considera ogni cosa del creato in perfetta comunione con tutte le altre, sulla base di un’identica origine divina. Ogni cosa, dalla più infima fino alla più complessa (dal batterio fino all’uomo, potremmo dire) ha, nella visione del Santo, un’identica dignità ontologica e merita quindi cure e attenzioni. Quello di san Francesco «era molto più che un apprezzamento intellettuale o un calcolo economico, perché per lui qualsiasi creatura era una sorella, unita a lui con vincoli d’affetto» (n.11). L’invito di Papa Francesco, pertanto, s’inserisce in questa cornice di comunione totale dell’uomo con il creato, e mira a sensibilizzare l’uomo orientandone le scelte verso un consapevole «sviluppo sostenibile e integrale» (n. 13). Relativamente al tema di questo articolo c’è un paragrafo della Laudato sì che mi pare particolarmente importante e suggestivo. Al n. 22 il Santo Padre fa esplicito riferimento all’imperante «cultura dello scarto» che oggi esclude «tanto gli esseri umani» quanto «le cose che si trasformano velocemente in spazzatura». Subito dopo illustra il meccanismo esemplare degli ecosistemi: «le piante sintetizzano sostanze nutritive che alimentano gli erbivori; questi a loro volta alimentano i carnivori, che forniscono importanti quantità di rifiuti organici, i quali danno luogo a una nuova generazione di vegetali». Contrariamente a questo modello naturale, quello industriale (del quale la moda, oggi, è parte costituente) «alla fine del ciclo di produzione e di consumo, non ha sviluppato la capacità di assorbire e riutilizzare rifiuti e scorie». Dopo questo importante parallelismo il Santo Padre si rammarica che ancora «non si è riusciti ad adottare un modello circolare di produzione che assicuri risorse per tutti e per le generazioni future, e che richiede di limitare al massimo l’uso delle risorse non rinnovabili, moderare il consumo, massimizzare l’efficienza dello sfruttamento, riutilizzare e riciclare» (n. 22). L’affresco dipinto dal Santo Padre è veritiero e sconcertante, certo, ma diverse risposte alla crisi globale si stanno però affacciando sulle varie scene locali. In effetti, sebbene la risposta alla crisi ecologica – che è ormai da tempo planetaria – la si immagina altrettanto globale (e infatti diversi sono gi appelli di Francesco al dialogo internazionale), io ritengo che invece la costruzione di un nuovo mondo debba necessariamente partire dalle realtà locali e dall’instancabile determinazione di poche anime che abbiano interiorizzato la necessità di prendere in considerazione un tipo di pensiero che valorizzi non soltanto i bisogni dell’uomo ma i bisogni dell’ambiente (la «nostra casa») colti nella loro universalità. La logica della serialità, che è la manifestazione più esplicita e visibile di quel paradigma tecnocratico che governa senza ostacoli la nostra vita, si manifesta in modo assai evidente anche nei meccanismi della moda. Sebbene il discorso dovrebbe aprirsi, per essere davvero analitico, anche alle dimensioni psicologiche sottostante questi meccanismi (e assai interessante risulterebbe l’inquadramento del processo incessante della moda all’interno del paradigma della liquidità di Bauman) io mi limito alla considerazione, veritiera e però assai superficiale, di una dinamica quotidiana di ricambio incessante dei capi di abbigliamento. Il vestito, ad oggi, si fa certamente veicolo di valori (essendo l’abbigliamento anche un dispositivo simbolico particolarmente importante nelle dinamiche sociali), ma che non si agganciano più ad identità stabili e profonde. I processi incessanti che caratterizzano il nostro tempo liquido fanno della moda un vorticoso movimento caleidoscopico di valori legati soprattutto alla valorizzazione del corpo colto nella sua effimera e affascinante bellezza. Sono valori legati soprattutto ad un tentativo di provocare negli altri emozioni forti di ammirazione, invidia magari, adorazione, scandalo e approvazione. Chi indossa lo stesso vestito per più giorni, provvedendo comunque ad una sua corretta igienizzazione, avrebbe vita facile in un contesto sociale che tende a fare del vestito l’emblema di una ricchezza esibita, ostentata, agognata? Come potrebbe, tale persona, mantenere lo stesso abito di un mondo di identità cangianti e smarrite che, come liquidi in contenitori, assumono più volte al giorno forme diverse? Ma qual è il destino del capo di abbigliamento quando, dopo un paio di utilizzi, diventa immediatamente obsoleto? Ebbene, ecco che le parole del Santo Padre si riconfermano in tutta la loro tragica veridicità. Il mondo occidentale si satura di tessuti, assai spesso trattati chimicamente, che è impossibile smaltire. La bulimia della moda, ossessiva e incessante, contribuisce in modo drammatico all’accumulazione impressione di capi subito divenuti obsoleti. Quella di Barbarba Borsotto e della sorella Monica, direttrici artistiche dell’azienda di famiglia DAPHNÉ di Sanremo, è una risposta forte, significativa e assai importante. Da più di sessanta anni questa azienda si preoccupa di dare un segnale forte nel campo della moda (ma anche della profumeria) che è perfettamente coerente con i principi cardine di una ecologia totale, profonda (deep ecology) ed etica. L’azienda di Barbara e Monica s’inquadra perfettamente in quella prospettiva, auspicata da Papa Francesco, di una produzione sostenibile circolare, in grado di collocare il capo d’abbigliamento all’interno di un circolo che dalla natura, ritorni poi ad essa senza lederne gli equilibri e senza aggravare la già disperata situazione legata allo smaltimento. Un esempio perfetto (si veda la foto) è dato dall’estrazione di fibre naturali dall’àbaca che, attraverso un lineare processo di lavorazione, consente la produzioni di capi d’abbigliamento e accessori totalmente biodegradabili. La biodegradabilità, è bene rilevarlo, non è soltanto una caratteristica biologica di un certo tipo di materia, ma è un valore etico ricercato dalle sorelle Borsotto con determinazione, passione e consapevole lungimiranza. Bisogna tuttavia rilevare le forti resistenze incontro alle quali simili tentativi, encomiabili e ad oggi indispensabili, vanno incontro. Per comprendere adeguatamente il contrasto tra il modello del fast fashion – oggi imperante - e quello dello slow fashion bisogna ampliare lo sguardo e far riferimento ai due assetti psicologici che soggiacciono a questi macro-fenomeni. Quella sottesa al modello del fast fashion è un tipo di psicologia liquida che non desidera, ma divora nell’immediatezza del qui ed ora, il capo d’abbigliamento. Esso diventa soltanto un mezzo per un traguardo tanto effimero quanto in realtà accuratamente ricercato: il like. Difatti l’outfit assume oggi, soprattutto per i prigionieri della realtà virtuale, un significato esplicitamente utilitaristico finalizzato ad una vacua e anonima approvazione sociale che diventa tanto più grande quanto più chi esibisce il nuovo capo d’abbigliamento riesce a produrre tanta varietà anche nell’arco della stessa giornata (valga per tutti l’esperienza della sedicenne Mia Grantham, raccontata al New York Times e riportata da Huffpost nel 2020). Se si pensa al fatto che è la Generazione Z a trainare il mercato della fast fashion, la problematica dello smaltimento dei capi di abbigliamento (e in generale la problematica complessa della crisi ecologica planetaria) non può non assumere i contorni di un problema evidentemente psico-pedagogico. La moda, dunque, per poter essere veramente veicolo di valori ispirati ai più puri principi di una consapevole e meditata ecosofia, deve necessariamente ritagliarsi un posto all’interno dei più generali movimenti di rieducazione dell’uomo. La moda, in altri termini, non può certamente ridursi ad un percorso estetico ma deve, con i suoi linguaggi attraenti e seducenti, riuscire a veicolare valori di eco-appartenenza e rispetto integrale dell’ambiente di vita e di questa mission – che è un tassello, certo, importantissimo  del grande progetto di rieducazione dell’uomo – le sorelle Borsotto sono un’esemplare testimonianza.

 

 

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