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La Chiesa che manca

Intervista a don Armando Matteo sul suo nuovo volume. 

La Chiesa che manca

Il 20 dicembre 2018, nei saloni del Seminario dell' Eparchia di Lungro, a Cosenza, don Armando Matteo, sacerdote della diocesi di Catanzaro, docente presso la pontificia Università Urbaniana, presenterà Il suo volume "La Chiesa che manca" (ed. San Paolo). Lo abbiamo intervistato.

Cosa significa la Chiesa che manca?
Ha un duplice significato. Anzitutto intende far emergere, e lo dico anche con un certo dolore, il fatto che una parte della popolazione non si sente più a casa dentro la Chiesa. Mi riferisco alle nuove generazioni, alle donne, che non  incrociamo più dentro le comunità se in non in parte minoritaria. Eppure sono le parti più significative. Così come si può dire che è diminuita la presenza di quegli adulti credenti che hanno sempre rappresentato una forza.
Dall'altro lato Chiesa che manca è però anche quella di cui si ha nostalgia e che comunque non si arrende a questo dato, che si impegna in tutti i modi per creare le condizioni perché giovani, donne, adulti possano riscoprire un vero interesse per l ‘esperienza della fede e della fede cristiana.
Mancano testimoni credibili?
Abbiamo un grosso problema con la fascia adulta della popolazione, in particolare coloro che sono nati tra la fine della II Guerra mondiale e la fine degli anni Settanta. Questi mantengono un legame di tradizione con l’esperienza cristiana, sono interessati a che ci sia un sostentamento per la Chiesa, ma nella loro vita si è fatto avanti il principio ispiratore della giovinezza, della performance, dell’essere sempre attivi e potenti. Tutto questo provoca una sorta di chiusura, di narcisismo e individualismo e soprattutto blocca sia i dinamismi educativi e anche la trasmissione della fede. Quello che manca davvero sono adulti che non solo siano tali dal punto di vista anagrafico o sociologico, ma anche dal punto di vista interiore, che vivano l’esperienza dell’adultità come tempo – spazio – luogo in cui esercitare una responsabilità e la trasmissione della fede.
Potrebbero allora essere i giovani i più sensibili?
Esattamente. In qualche misura il mito del giovanilismo rende l’esperienza della fede non più così centrale, se le ragioni per apprezzare la nostra esistenza si limitano a come ci vediamo nello specchio e senza guardare la carta d’identità. Ma chi apprezza le ragioni della fede guarda semplicemente alla realtà. La fede ci aiuta ad avere un rapporto nobile e meno complicato con la nostra vita reale. Noi adulti, non tutti ovviamente, viviamo in una sorta di bolla mentale.
C'è bisogno di giovani veri e adulti veri?
I giovani portano dentro la loro carne ed esperienza una domanda molto semplice: che cosa significa diventare grandi. Da parte del mondo giovanile c’è un’apertura alla realtà, e anche al Vangelo, ma non possiamo negare che gli ambienti sociali diffusi, la cultura, cercano di disorientare i giovani rispetto alla tensione alla crescita che loro avvertono. Non è facile essere giovani. Si trovano a confronto con adulti e vecchi che tutto vogliono fare nella vita tranne che fare gli adulti e i vecchi. E se questi vogliono fare i giovani allora rubano spazio ai giovani.
Papa Francesco invoca spesso un'alleanza intergenerazionale. È questa la necessità?
Giustamente papa Francesco ribadisce che il compito che oggi la comunità ecclesiale ha è quello di far ripartire il dialogo intergenerazionale. Egli suggerisce di ripartire dagli anziani e i giovani, le due categorie più scartate. Poi considera con occhio realistico la situazione degli adulti, che ritiene essere diventati un po’ crudeli. Invita la comunità ecclesiale a prendersi cura del dialogo. Se da una parte è una bella scommessa creare un’alleanza fra anziani e mondo dei giovani, dall’altra diventa ancora più urgente provare a risvegliare gli adulti da questa specie di sonno e incatenamento che sta facendo un vero e proprio disastro nella qualità della vita dell’uomo.
Il Santo Padre sia in Evangelii Gaudium che al convegno di Firenze lascia alla creatività delle comunità locali gli approcci pastorali adeguati. Quali possono essere?
Possono esserci diversi approcci. Anzitutto, ogni comunità dovrà dedicare agli adulti, tra i 40 e i 60 anni, lo stesso numero di energie che attualmente destina alla fascia degli infanti, perché il problema sono gli adulti e non i giovani e i bambini. In secondo luogo, sostenere i giovani in maniera molto forte e riaprire il discorso su cosa significa diventare grandi, che è la cosa più naturale per l’essere umano. Il terzo approccio: ripresentare l’esperienza ecclesiale come un’esperienza per vivere al meglio l’esperienza umana. L’altro elemento decisivo è la preghiera, perché la Chiesa deve diventare una casa di preghiera. Oggi la gente quando ha un problema cerca la crema giusta, lo specialista giusto, quel bisogno che alimentava la preghiera nel passato non c’è più. In questo senso, c’è bisogno di riscoprire la preghiera come elemento di contatto con Dio che ci aiuta ad affrontare la realtà. In ultimo, ciò che i giovani hanno chiesto in modo forte sia nella riunione presinodale sia durante il Sinodo, è che ci vorrebbe una Chiesa più intonata al tema della gioia. Senza gioia non serve andare a Messa, perché se entrando in chiesa sembra ci sia sempre un funerale, non serve a niente. Ci vuole maggiore attenzione alla qualità della liturgia, ai canti, alla fraternità fra tutti.

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