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Ma quando invocano i campi profughi sanno di cosa parlano?

Mentre il cardinale Angelo Bagnasco, presidente della Cei, affermava che "alimentare la paura non è mai una buona consigliera", il governatore della Lombardia, Roberto Maroni, già ministro dell'Interno, proponeva: "Bisogna bloccare le partenze: non bombardando i barconi, ma impedendo loro di partire attraverso un blocco navale e creando dei campi profughi in Libia, su iniziativa delle Nazioni Unite"

Ma quando invocano i campi profughi sanno di cosa parlano?

Come si fa a rispondere a un interminabile fuoco di fila quotidiano di proiettili che alimentano l’odio nei confronti dei migranti, che diventano bombe a mano e granate quando rimbalzano sui media, a volte senza contestualizzazione oppure cavalcati in maniera strumentale? Ci si prova con argomentazioni non violente fondate sull’esperienza, sui numeri e sul buon senso. In questi giorni i proiettili che fomentano la paura, i pregiudizi e i luoghi comuni, “su al Nord”, sono stati tanti, troppi, da far cadere le braccia di fronte alle maliziose, se non cattive, “boutades” rilanciate ogni ora dalle agenzie alla voce “immigrazione:” e poi urlate su tv, radio e giornali. “Alimentare la paura non è mai una buona consigliera”, ha detto a Milano il cardinale Angelo Bagnasco, presidente della Cei. Pochi minuti prima il governatore della Lombardia, Roberto Maroni, già ministro dell’Interno che aveva gestito a suo tempo l’emergenza immigrazione nel 2011 in seguito agli sbarchi della primavera araba, ne aveva sparata un’altra: “Bisogna bloccare le partenze: non bombardando i barconi, ma impedendo loro di partire attraverso un blocco navale e creando dei campi profughi in Libia, su iniziativa delle Nazioni Unite”.

Ma sa davvero cosa vuol dire vivere in un campo profughi? Sicuramente (almeno si spera) Maroni ci sarà stato in uno di questi campi durante qualche visita ufficiale, quando si provvede, per così dire, a nascondere le cartacce sotto la scrivania, e a ripulire e sistemare a dovere mostrando alle autorità solo il mostrabile, quello che funziona bene. Lo sa, in termini di dignità, cosa significa trattare gli esseri umani come bestie da rinchiudere in una specie di zoo (campo di concentramento è troppo, ma per chi non ha visto la guerra per l’immaginario assomiglia a qualcosa di simile) per un tempo indefinito? Persone come noi, colpevoli solo di essere poveri, di essere nati nella parte sbagliata del mondo e di aspirare ad una vita migliore. Persone destinate, quasi come pacchi postali, verso un qualunque dove, basta solo che lì non ci sia la guerra, non ci siano le persecuzioni, non si soffra la fame, non si viva nella miseria più nera. 

Tristi città senza tempo, luogo, identità. Perché così è accaduto e continua ad accadere in tante zone del mondo, nonostante l’impegno lodevole dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite e delle tante organizzazioni umanitarie che si fanno carico degli sfollati interni ai Paesi o dei richiedenti asilo fuori dalla loro patria. Non ci sono stime certe, ma si calcola che nel mondo gli sfollati siano intorno ai 27,5 milioni, la maggior parte in Africa e in Asia. Campi che diventano vere e proprie tristi città senza tempo né luogo, né identità, ubicati come sono, nel nulla, spesso in deserti sassosi e inospitali, ai confini degli Stati. Alcuni, come il più grande campo del mondo, quello di Dadaab in Kenya, è diventato talmente pericoloso da costringere Medici senza frontiere, qualche settimana fa, ad abbandonare le sue attività. Nel campo profughi di Zaatari, in Giordania, a 15 km dal confine con la Siria, dove sono centinaia di migliaia di profughi siriani, solo i serpenti e gli scorpioni sono a proprio agio. Gli ulivi sono tutti secchi, la polvere si solleva sul caldo estremo dell’estate e sul freddo gelido dell’inverno. Qui le condizioni di vita sono definite “impossibili” da chi ci vive: il 60% sono bambini, il resto donne sole, vedove o con i mariti in guerra, con una media di quattro o cinque figli. I pochi padri sono terrorizzati per i rischi che corrono le figlie adolescenti. Ogni tanto viene scoperto un bordello clandestino ma il trend più frequente è la vendita delle figlie adolescenti a ricchi e vecchi stranieri del Golfo per poco più di 500 euro. Frequenti sono le rivolte, la violenza indotta dalla cattività e da una microeconomia che si instaura per procacciare merci, con traffici e malaffare locale ricreati in loco. 

Ma un migrante non è un uomo? Ma forse Maroni, quando parla d’istituire dei campi profughi in Libia, vorrebbe forse ripetere l’esperimento “eccellente” realizzato al campo di Choucha, nel sud della Tunisia, istituito proprio nel 2011 durante la guerra in Libia, che ha portato più danni che altro, come è sotto gli occhi di tutti. Forse il governatore della Regione più ricca d’Italia non ricorda, o non c’è mai stato, che in quel campo, dopo essere passati circa 330mila stranieri che lavoravano in Libia, tutti rimpatriati in breve tempo perché i rispettivi governi potevano permetterselo e perché dalle loro patrie non fuggivano, sono stati dimenticati per quasi tre anni, sotto i 50° gradi implacabili di un deserto desolato e isolato, al confine con la Libia, tremila profughi in fuga da Eritrea, Somalia, Etiopia, Nigeria, Mali… tutti Paesi con situazioni critiche che danno diritto ad una protezione umanitaria. Uomini, donne, per fortuna pochi bambini, costretti a vivere sotto una tenda asfissiante di giorno, gelida di notte, a non far nulla, a non sapere cosa sarà della loro vita, parcheggiati a tempo indefinito in attesa dei tempi biblici delle pratiche di asilo, o di un odiato rimpatrio in una terra che li odia, per dirla alla Fossati, o verso una terra che non li vuole. Vorremmo chiedere a Maroni, e ai suoi colleghi “su al Nord”, se considerano un migrante un uomo.

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