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L'INTERVISTA

Leonetti, il pilota dell'aereo del Papa

Originario di Pedace, ha condotto in Oriente Francesco.

Parole chiave: Casali del Manco (9), Papa Francesco (321), Alitalia (1), Ruggero Leonetti (1), Pedace (2), Giappone (3), Thailandia (1)
Leonetti, il pilota dell'aereo del Papa

Di Pedace, ma da tanti anni trapiantato da Pesaro. Ruggero Leonetti, primo ufficiale di volo dell’Alitalia, lo scorso 19 novembre ha fatto parte dell’equipaggio che a portato papa Francesco in visita in Thailandia e Giappone. Al nostro giornale spiega e racconta i dettagli di quei giorni.
Leonetti, lo scorso martedì 19 novembre lei ha partecipato, in qualità di primo ufficiale, al volo Alitalia che ha portato papa Francesco in visita in Thailandia e Giappone. Com’è nato tutto?
Tutto parte circa due mesi prima. Nel senso che viene fatta una precisa richiesta da parte del Vaticano per questi viaggi. Il prossimo potrebbe essere magari in Cina! L’Alitalia predispone delle informazioni in base alle rotte che verranno utilizzate. Si attiva una procedura con un team di persone che segue e organizza questi voli speciali, dalla parte tecnica fino alle richieste di sorvolo e ad una serie di accordi con autorità internazionali. Il giorno prima del volo si tiene un incontro. Vengono preparati due areoplani, il titolare e quello di riserva. La sicurezza bonifica e mette in quarantena il velivolo. Il giorno del volo ci siamo presentati presto in aeroporto per desumere le notizie di volo. Oltre al Papa, sono venuti circa 30 persone del Vaticano, 70 giornalisti. Abbiamo montato dei supporti per mostrare le bandiere degli Stati, quello italiano e quello vaticano. Poi la bandiera italiana è stata cambiata con quello dello Stato che ci stava ospitando. Il Santo Padre è arrivato alle 6 e 50. È venuto subito a salutare noi in cabina.
Quali emozioni ha provato, nel portare il Pontefice dall’altra parte del mondo?
Per me è stata una grande soddisfazione professionale. Viaggi come questo sono altamente impegnativi. Si dovevano rispettare rigidamente gli orari. La sensazione è stata molto forte. Mi dispiace solo che non c’è più mia madre perché lei avrebbe apprezzato tantissimo questa vicinanza al Santo Padre. Nella parte iniziale del viaggio non ho avuto modo di assaporare meglio il momento, perché ero concentrato a stare dietro i secondi ed evitare qualsiasi errore. Durante il volo è come se condividessi un piccolo appartamento con altre persone. Stare fianco a fianco con il Santo Padre in volo è stato qualcosa di molto bello.
Quindi papa Francesco è potuto entrare nella cabina di volo?
Si, lui veniva davanti a noi. Utilizzava i nostri stessi spazi. Una cosa molto bella che fa papa Francesco è che, subito dopo il decollo, lui dedica qualche minuto a chiacchierare con i membri dell’equipaggio.
Che sensazione ha provato quando parlava con il Pontefice?
È stato come parlare con il proprio nonno. Molto aperto, diretto. Non ha etichette o procedure. Ha un modo di comunicare che ti arriva direttamente al cuore. Si vede come ti mette subito a tuo agio, trasmettendoti il suo amore. Abbiamo parlato del volo, lui ci ha raccontato delle sue precedenti esperienze con la compagnia. Questi viaggi rappresentano azioni importanti, come in Giappone dove i cristiani non sono numerosi.
A bordo il Papa di quali servizi ha potuto usufruire?
Lui aveva il posto normale della classe magnifica. Una poltrona che si reclina. A lui ne è stata dedicata una che si può abbassare fino a diventare un lettino, ma il Pontefice non ha voluto assolutamente niente in più di quello che posseggono gli altri. Vicino al suo posto, il primo della fila, c’era un’effige della Madonna.
Parliamo di lei. Hai un passato nell’aeronautica militare. Ci dica di più.
Sono originario di Pedace. Ho frequentato il liceo scientifico “Scorza” di Cosenza. Nel 1980 ho fatto il concorso per entrare nell’accademia dell’aeronautica. Eravamo 3000 in corsa, dalla selezione rimanemmo in 45. Venni assegnato nelle squadre di ricerca di soccorso in aree di pace e di guerra. Ho lavorato con grossi elicotteri, dapprima in Sicilia, Ciampino, Rimini, e in seguito, come casco blu, in Libia, Libano, Somalia, Kossovo, Bosnia. Ho ricoperto tutti i gradi da comandante di squadriglia, comandante di gruppo, capo ufficio operazioni. Da tenente fino al grado di colonnello. Con me si imbarcavano medici e soccorritori.
Cosa ricordi di quegli anni?
Un grosso lavoro di squadra tra gli equipaggi di terra e di aria. Le missioni avevano un livello di rischio e di impegno molto alto. Ci occupavamo della preparazione logistica delle missioni. La nostra gara era quella di fare in tempo per soccorre una volta un naufrago, un’altra volta un ferito. La vittoria era la salvezza della vita umana. Non sempre riuscivamo ad arrivare in tempo.
Quando hai lasciato l’aeronautica?
Mi trasferirono da Rimini a Roma, allo Stato maggiore aeronautica affidandomi un ufficio. Ma siccome ho la famiglia a Pesaro e facevo il pendolare su Roma ho deciso di tornare a volare. A 38 anni ho fatto un nuovo concorso per riprendere a volare sugli areoplani commerciali.
Adesso sei primo ufficiale…
Si inizia come allievo pilota, esperienza che dura un anno. Dopo diventi pilota titolare. Il primo ufficiale è il grado che viene dopo quello di comandante. Lo si sostituisce alla guida quando lui è impossibilitato o riposa. Non sono ancora comandante, perché purtroppo in questi anni l’Alitalia è andata quasi sempre in crisi.
Quali sono stati i voli più difficili e quelli più sereni?
Il nostro è un lavoro di un livello tecnico alto. Non ci sono voli semplici e difficili. Generalmente difficili sono quelli nel Nord America o le traversate sotto la fascia intertropicale, in condizioni metereologiche avverse. Un volo che ho amato è quello che abbiamo fatto in Groenlandia. Io mi occupo, inoltre, di sicurezza facendo lavoro di prevenzione dei pericoli eventuali.
La fede ti aiuta nei viaggi?
Sono credente, lo sono sempre stato. Fin da bambino. Lo sono, però, in un modo un po’ individualista. Non partecipo molto. Le missioni in Libano e in Somalia hanno rafforzato molto la mia fede. So che c’è un Dio buono che ci segue. La cosa a cui aspiro, dato che ho lavorato in ambienti degradati, è che ci deve essere maggiore dialogo e un’apertura con tutti. La gente non parla, resta per lo più in superficie.

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