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Come non si racconta l'orrore

Dalla Puglia a Nizza, parole e immagini inseguono tragedia e dolore.

La morte, il dramma, la tragedia e purtroppo anche l’orrore provocato dal terrorismo fanno parte della nostra realtà contemporanea. Per questo la televisione, al pari degli altri media, non può non raccontarli. Ma c’è modo e modo. Le cronache degli ultimi giorni ci hanno brutalmente sbattuto davanti agli occhi il tragico scontro frontale fra due treni in Puglia e l’attentato omicida di Nizza che ha visto morire decine di persone.
Di fronte a fatti come questi restiamo attoniti e la curiosità di sapere come e perché siano successi è spontanea. In questo senso, la tv può contribuire a fornire informazioni, spiegazioni e interpretazioni attraverso le parole e le immagini. Il problema sta quando queste ultime vengono utilizzate a scopo spettacolare o soltanto per garantire quell’impatto emotivo che per i mezzi di comunicazione significa aumento del pubblico raggiunto.
Qual è – se c’è – il confine tra voglia di sapere e voyeurismo? E quando la dovizia di particolari su un fatto diventa sciacallaggio mediatico?
Si tratti di un drammatico incidente o di un sanguinoso atto premeditato, la situazione delle vittime è sempre uguale: persone innocenti, il cui unico torto (se così si può definire) è quello di essersi trovate al posto sbagliato nel momento sbagliato, andando inconsapevolmente incontro alla morte in situazioni di vita normale, fosse un viaggio verso il lavoro o lo studio oppure un momento di festa collettiva.
Non si può sentire un giornalista di una delle principali testate televisive nazionali parlare di “membra di corpi che vagavano ovunque sulla Promenade des Anglais”. È una descrizione biecamente tendente allo shock e per niente esplicativa. Né si possono vedere i suoi colleghi che spianano microfoni e telecamere sotto il naso dei sopravvissuti o di chi sta cercando notizie per sapere se i suoi cari sono vivi o morti. È una speculazione sentimentale che, catturando serve soltanto per catturare perfino i loro sospiri e pianti.
Il diritto-dovere di cronaca impone ai giornalisti da un lato di fornire al pubblico un’informazione sufficientemente completa e capace di raccontare gli elementi salienti dei principali fatti di cronaca, dall’altro di mantenere la forma espressiva entro i limiti della continenza, senza eccedere in dettagli superflui o, peggio, macabri.
Nel racconto dei fattacci di questi ultimi giorni gli eccessi ci sono stati, non soltanto a livello di parole ma anche nelle immagini. Quando capita un avvenimento drammatico, prima ancora delle telecamere delle testate giornalistiche arrivano gli sguardi elettronici dei telefonini in mano alle persone comuni, pronte a registrare video in tempo reale che poi vengono rilanciati dall’informazione televisiva.
L’immediatezza delle riprese bypassa il lavoro di montaggio che darebbe alle immagini un senso compiuto e consentirebbe di eliminare le parti da non mostrare.
Si rischia così di proporre agli spettatori un a serie di immagini di forte impatto che finiscono per essere un catalizzatore emotivo momentaneo: l’inevitabile shock provocato dalla prima visione cala progressivamente con la reiterazione dei filmati, a cui alla fine il nostro occhio rischia di abituarsi, provocando nei nostri cuori una desensibilizzazione che si stabilizza una volta passato il “picco”.
Nello zapping quotidiano lo spettatore tende a soffermarsi proprio sulle immagini che lo colpiscono di più, a prescindere dall’eventuale correttezza comunicativa di un’informazione che dovrebbe raccontarci il mondo e i suoi protagonisti cercando di farci capire meglio cosa” succede e perché. Invece troppo spesso si punta ad alzare il livello empatico e patemico per spettacolarizzare perfino il dolore, calpestando il rispetto per le persone, siano esse vittime, sopravvissuti o telespettatori.

Fonte: Sir
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