Editoriali
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L’Italia deve curare la sua anomalia con dosi massicce di riformismo. Pena la decadenza

“Il merito e il bisogno”? Le donne gli uomini e i giovani di questo Paese attendono disperatamente che vengano riconosciuti i loro meriti e vengano soddisfatti i loro bisogni. Quindi c’è solo da augurarsi che qualcuno possa farcela davvero. Che si chiami Matteo Renzi o Pinco pallino, non importa. Il Paese ha un bisogno disperato di nuovi riformisti. Ma sempre e solo riformisti. Di populisti, massimalisti, neo nazionalisti, settari e giustizialisti via internet e rivoluzionari (da salotto e non solo) un Paese democratico come il nostro potrebbe e dovrebbe cominciare a farne a meno.

L’Italia deve curare la sua anomalia con dosi massicce di riformismo. Pena la decadenza

C’è un virus che si annida maligno nelle viscere del sistema politico italiano, che ha contaminato la cultura italiana svuotandola progressivamente di senso civico, che ha ammorbato sino allo sfinimento l’opinione pubblica al punto da mitridatizzarla, assumendo nel tempo forme e modi diversi. Chiamatelo oltranzismo, estremismo, massimalismo, giustizialismo o benaltrismo, il risultato è sempre stato uguale a se stesso: la sconfitta del riformismo.

Non v’è dubbio che, superata la prima stagione irripetibile del riformismo sociale e istituzionale a trazione democristiana, il riformismo italiano abbia inanellato una lunga stagione di sconfitte più o meno meritate, più o meno motivate, più o meno necessitate. Anche le leadership riformiste hanno subito lo stesso destino, spesso accomunate dall’oblio a cui sono destinati gli sconfitti. Dalle urne, ma ancor più dagli scandali veri o presunti. Giusto per fare memoria breve, si sono dichiarati riformisti Bettino Craxi, Giuliano Amato, Carlo Azeglio Ciampi, Silvio Berlusconi, Romano Prodi, Mario Monti e Matteo Renzi. Più sinistra che destra, ma questa è la galleria riformista del Paese. Craxi è stato sepolto vivo da Mani Pulite. Amato, Ciampi e Monti hanno avuto piuttosto il profilo dei “grand commis” o degli uomini delle istituzioni e in questa veste hanno servito la causa riformista, senza però riuscire a incidere sul Paese al quale hanno dato un contributo soprattutto sul piano del rigore finanziario, pure necessario in un’Italia vittima della propria dissipazione economico-finanziaria.
Un discorso a parte meritano Berlusconi, Prodi e Renzi. Il Cavaliere ha ipnotizzato gli italiani con la sua promessa di una “rivoluzione liberale” che aveva una base riformista, ma abbiamo visto come è andata a finire, con il discredito personale e l’azione incessante delle Procure italiane che hanno scatenato una caccia senza quartiere alla lepre Silvio, che dal canto suo ha offerto tanta materia con i suoi eterni conflitti d’interesse oltre che con i suoi discutibili costumi privati.

Lo storico avversario di Berlusconi, Romano Prodi, l’unico capace di batterlo per ben due volte nelle urne, ha dovuto arrendersi ai limiti del proprio progetto riformista: regolarmente tradito, dentro e fuori del Parlamento dalle forze massimaliste che ne avevano decretato il successo elettorale, ma non la tenuta governativa. A dimostrazione che le forze riformiste sono condannate a vincere da sole e perciò hanno il dovere innanzitutto di radicarsi nel Paese reale. Infine c’è Matteo Renzi, l’ultimo a tentare la scalata più ardua: rilanciare il Paese con le ricette del riformismo. Si può non essere d’accordo su nulla con il giovane leader fiorentino, ma non si può disconoscere che la sua sia una ricetta riformista.

Una proposta che nella lotta politica può anche comprendere la discutibile prassi della “rottamazione” come espediente retorico-programmatico al fine di liberarsi di avversari interni più o meno scomodi, ma dipingerlo come un tiranno è inverosimile. Magari possono non piacere certi suoi vezzi presi in prestito agli avversari (Berlusconi innanzitutto), ma è indiscutibile che la sua prassi politica sia riformista. La sua ricerca del “nuovo” a tutti i costi può anche suonare stonato in un Paese conservatore, corporativo e bloccato qual è l’Italia, ma ancora non vediamo nascere altre forme di riformismo. Cioè una nuova idea di Stato, di partito, di società, di cultura e di relazione sociale.
Quando il presidente del consiglio per spiegare la manovra economica ha evocato “il merito e il bisogno”, abbiamo fatto un salto all’indietro, al Claudio Martelli del 1982.

Un’era geologica per la vita politica. A quel tempo Renzi aveva solo sette anni. Oggi lui scopre “il merito e il bisogno”? Vorremmo prenderlo molto sul serio. Perché le donne gli uomini e i giovani di questo Paese attendono disperatamente che vengano riconosciuti i loro meriti e vengano soddisfatti i loro bisogni. Quindi c’è solo da augurarsi che qualcuno possa farcela davvero. Che si chiami Matteo Renzi o Pinco pallino, non importa. Il Paese ha un bisogno disperato di nuovi riformisti, anche in campi politici diversi dal suo. Ma sempre e solo riformisti. Di populisti, massimalisti, neo nazionalisti, settari e giustizialisti via internet e rivoluzionari (da salotto e non solo) un Paese democratico come il nostro potrebbe e dovrebbe cominciare a farne a meno. Tutti loro fanno parte dell’anomalia italiana. Cioè di una democrazia occidentale che ha paura delle riforme.

L’Italia deve curare la sua anomalia con dosi massicce di riformismo. Pena la decadenza
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