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Nel carcere di Rebibbia un docufilm con gli studenti dell’Universita Roma Tre insieme ai detenuti attori

Presentato nel carcere romano di Rebibbia un docufilm realizzato dagli studenti del Dams dell'Università Roma Tre insieme ai detenuti del Teatro Libero di Rebibbia. Un viaggio iniziatico verso la comprensione del mistero della libertà dell'arte che abbatte muri, cancelli e pregiudizi.

Nel carcere di Rebibbia un docufilm con gli studenti dell’Universita Roma Tre insieme ai detenuti attori

Le mura del carcere romano di Rebibbia si sono aperte a sette giovani universitari per un incontro e una profonda esperienza di vita a contatto con una ventina di detenuti, attraverso l’arte e il teatro. È quanto raccontato dal docufilm “Rebibbia 24”, presentato il 20 dicembre in anteprima proprio all’interno del penitenziario romano. Protagonisti e autori sono Giulia, Filippo, Miriam, Mariangela, Federica, Giulia e Yaya, universitari del Dams, il Dipartimento di filosofia, comunicazione e spettacolo dell’Università Roma Tre. Per mesi si sono impegnati in un progetto coordinato da Fabio Cavalli, regista teatrale e cinematografico. Il docufilm è stato realizzato insieme a venti detenuti-attori del Teatro Libero di Rebibbia, che il 20 dicembre hanno assistito alla proiezione nell’Auditorium interno al carcere, insieme ai familiari e a centinaia di studenti. I ragazzi hanno utilizzato smartphone, stabilizzatori di immagine, droni e macchine da ripresa subacquea per girare un documentario tecnologicamente innovativo. Siamo entrati anche noi, consegnando telefonini e borse, superando cancelli, sbarre e recinzioni. Immaginando cosa possa significare trovarsi a guardare il cielo azzurro di tramontana durante l’ora d’aria. Lo spazio aperto è davanti alla chiesa, in questi giorni addobbata di luci per Natale. Proprio là sotto è il teatro. Aria, fede, arte. Che fanno sognare la libertà.

L’impatto con il carcere. I sette studenti hanno scoperto così, per la prima volta in vita loro, che Rebibbia non è solo il nome di una fermata della metropolitana romana. Specialmente Yaya, ragazza cinese che studia in Italia da due anni, è il filo conduttore che guarda con occhi emozionati e stupiti una realtà totalmente nuova e inaspettata. Sono gli stessi ragazzi a fare le riprese, scrivere i testi e montare le immagini. “Il primo duro impatto con il carcere è l’isolamento – racconta un detenuto -. È come l’attraversamento dello Stige”. Un altro racconta di quando gli è stata concessa una cella migliore: “Ho provato una forte emozione, come quando sono andato alle Mauritius. So che non è proprio la stessa cosa, ma a livello emotivo per me era simile”. Esprimendosi in dialetto davanti alle telecamere – spiccano gli accenti siciliani, calabresi e napoletani – i detenuti descrivono con spontaneità e verità l’esperienza del carcere, narrano frammenti di vita e sensazioni. “Il mio grande problema all’inizio è stato quello di dover vivere in una cella piccola – racconta un anziano recluso da decenni  -. Finché un giorno ho avuto una sorta di folgorazione: ho capito che dovevo diventare piccolo io, così la cella sarebbe stata più grande”. Un altro spiega cosa significa nascere e crescere in un ambiente sociale dove la mafia è un ideale. “La prima volta che sono stato arrestato facevo la seconda elementare”. Ma a volte in carcere è possibile il riscatto: “Ora studio giurisprudenza e l’anno prossimo mi laureo. Voglio diventare un uomo di legge”.

Il teatro e la libertà. Ma soprattutto dicono cosa ha rappresentato per loro recitare, mettersi nei panni degli altri su un palco, per vivere una esperienza catartica e liberatoria. “La cultura e il teatro sono stati per me la base per attutire il colpo dell’ingiustizia subita”, dice uno. “Mi ha aiutato a superare la timidezza”, gli fa eco un altro.

“Quando reciti dimentichi di essere in carcere, ti senti libero”.

“Il teatro è qualcosa che ti può aiutare a pensare, a capire”. Nel docufilm sfilano le immagini dei detenuti e degli studenti che mettono in scena Amleto. In un passaggio molto forte Yaya risponde in cinese al suo interlocutore che parla in dialetto. È come se si capissero lo stesso. Arriva, a prescindere, l’emozione del rapporto padre-figlia. Anche i giovani vengono ripresi nei loro ambienti di vita benestanti. Parlano di sé, delle loro vite e sogni, di come questo viaggio provvisorio all’interno del carcere ha cambiato le vite di tutti. Il finale con i titoli in coda è allegro, ballato e in grande stile.

Chi è dentro e chi è fuori. Così, sul palco dell’auditorium, a conclusione di una avventura condivisa, la commozione era palpabile. Dopo i ringraziamenti, gli abbracci e i saluti, tra gli agenti di polizia penitenziaria che controllavano e invitavano noi spettatori ad uscire dal teatro, un “fine pena mai” riusciva a baciare di sfuggita la moglie e il figlio venuti per l’occasione. Poi i cancelli si sono chiusi di nuovo, marcando con forza la distinzione tra chi resta dentro e chi vive fuori.

“Sono colpevole, lo so. Speriamo che con questo documentario il mondo esterno si ricorderà di noi”.

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